Reparto dei pelati. Trovo molto razzista essere discriminati per aver fatto una scelta estetica funzionale, ma è veramente disumano pensare che oltretutto ci obbligano a mangiare solo pomodori; semplicemente ridicolo. Prendo una scatola di polpa e mi guardo in giro, attento a gesti di conferma o di diniego legati alla mia autonoma decisione, ma nessuno risponde, nessuno sembra voler creare parallelismi o contrasti con questa scelta, tutti troppo presi ad acquistare cibi surgelati precotti o addirittura predigeriti, per i più pigri. In realtà sto cercando tra la gente qualcuno che pur non somigliandomi condivide ancora qualcosa con me, e sono anche in questi momenti di quotidiana banalità che si evincono certe mancanze; scuoto il capo, ripeto che tutto andrà bene, mi mento ancora un po’ e poi vado verso i sottoli. Desidero perdermi fino a sbattere contro il futuro prossimo, sperando che sia carina, passionale, riflessiva ma innanzitutto concreta, reale, fatta della stessa materia con cui viene plasmata solitamente l’umanità. Niente da fare, però ho trovato il tonno in offerta, ne prenderò due scatole, non sia mai che anche il tonno venga a mancare improvvisamente. Continuo a dimenarmi tra gli scaffali, la luce al neon offre al pubblico un colorito radioattivo piuttosto interessante, tanto che mi metto a seguire la donna dei panieri di plastica, asiatica verde coop. Ritorno inconsciamente al banco della verdura, c’è una signora che sta tossendo sul cesto delle carote; mi metto in fila dietro di lei e quando se ne va, nonostante detesti la famiglia delle umbelliferae, prendo tutte quelle più in superficie, non sia mai che lascio sfuggire un’occasione del genere. Poi la bilancia prezzatrice, la mia preferita, con tutte le figurine sintetiche che premute innescano quel rassicurante automatismo adibito all’emissione dei un etichetta rivelatrice di quanto pagherai; la mia dice: atroci contorcimenti vegetali nel secondo girone del settimo cerchio per l’incapacità di controllo di pensieri autolesionisti, al chilo chiaramente. Com’è diventata cara la verdura al giorno d’oggi. Sono di nuovo immobile e inosservato tra il brusio sacro della lettura della lista, il confronto dei prezzi dei litchis, la critica delle ammaccature sulle mele, l’attenta analisi della provenienza dei frutti fuori stagione, l’interpretazione delle striature sui cocomeri e l’onnipresente tirare su col naso vicino ai poponi. Mentre osservo un ragazzo mettersi a piangere davanti ai peperoni rossi viene costruita intorno una muraglia di carrelli che mi imprigiona vicino alle melanzane, a un passo dalle insalate. L’asiatica [commessa, non insalata] nota la mia difficoltà claustrofobica, accoppa un’anziana con un cetriolo e mi viene in soccorso; la ringrazio e continuo il cammino. I generi alimentari che desidero acquistare sono pochi e il viaggio è quasi al termine; mi bastano tre birre per dimenticare il succo tropicale, poi un salto davanti al reparto parafarmaceutico per osservare quello di cui non ho bisogno, poi le casse. Bisogna essere molto cauti nella scelta, osservare bene quelli che ci stanno avanti e ipotizzare coloro che potremmo avere dietro, fare una stima delle cassiere e delle condizioni dei nastri trasportatori, poi fermarsi e dire ‘va bene qui, tanto non ho nulla da fare’. Davanti a me l’ennesimo padre di famiglia perduto, mandato a comprare cose di cui non conosceva l’esistenza, prima di avventurarsi in questo misterioso dungeon. Ha le pupille dilatate e sudando copiosamente osserva gli ovini kinder, pensando a quanto desideri ardentemente una tartallegra che gli faccia da guida spirituale; non viene esaudito e spende poco più di cinquanta euro in cibo sintetico.
È il mio turno: la cassiera è over 30, mora, di carnagione scura, non bella, ma forse non è possibile definirla esteticamente a causa dell’espressione perduta, una disperata silenziosa incrinatura degli occhi che chiedono aiuto; le sorrido cercando di essere sincero, vorrei essere una presenza benevola nel tentativo di non peggiorare la vita a una persona che vede passare troppe persone, troppe abitudini alimentari ogni giorno. Lo sguardo che restituisce al mio sorriso le rende buffo il naso un po’ troppo grosso, poi mi accorgo che il naso è buffo e un po’ troppo grosso comunque, e che i suoi occhi non mi hanno mai visto perché passati attraverso e oltre ancora la signora che ama l’olio di girasole dietro di me, al di là degli scaffali verso un possibile punto di fuga. Il nastro si muove a scatti, passa la prima bottiglia e suona il telefono, uno strano citofono messo in orizzontale da cui, una volta alzato, non esce più suono; lei non sa cosa significhi, è tesa, la magrezza accentua i tendini delle mani tirate nel gesto infinito di dover prendere oggetti e passarli veloci, ascoltando l’elettronico BIP! ripetersi con un’aritmia lancinante. Le passano tra le mani le zucchine e le carote con bacilli, prima che qualcosa smetta di funzionare per alcuni secondi: il codice a barre sui pomodori non produce alcun suono. Basta poco per tenderla ancora, le unghie le si conficcano nella buccia dei solanum lycopersicum mentre scuote con troppa violenza il piccolo tagliando di carta appiccicosa incollato sulla plastica fragile della busta, se qualcosa non vi torna è perché ho comprato sia i pomodori interi che la polpa di pomodoro che i pomodori secchi sottolio, va bene? La macchina torna a funzionare ma la cassiera non può più nascondere quello che si è intravisto per un momento oltre le maniche della camicia: una lunga, bianca, obliqua cicatrice che le attraversa il polso destro.
Cos’è che non va, cassiera sconosciuta? Questo lavoro non può andare bene a nessuno, non per sempre, ma quella cicatrice sembra vecchia anche se male assorbita e ancora peggio occultata; ma a chi vuoi che importi, qua in mezzo, chi è che ha tempo da perdere a guardare i polsi di una cassiera triste? Lo sfregio non è esteso, ma sembra esser stato molto profondo, come a volte si è profondi anche se si finisce a lavorare alla coop, per potersi permettere la comodità di fare la spesa quando finisce il turno. A volte è difficile trovare l’ispirazione necessaria a vivere, necessaria come fare la spesa, e si finisce per cercare di finire, di finirci; ci vuole poco, basta unire ai soliti acquisti un pacco di lamette da barba, di quelle un po’ vintage per mariti più vecchi di noi, che sono scappati dietro alla donna delle pulizie appena immigrata. Basta aprire la scatola aprire noi stessi e aspettare che smetta di pulsare; e pensare che non posso permettermi di parlare per stereotipi di un gesto così intenso, come a volte si è in tensione anche se si finisce. A lavorare alla coop. Ma forse, cassiera commessa, il tuo era un gioco, una roulette russa in cui non mancano pallottole ma motivi per vivere, e si perde al contrario, se non se ne trova neanche uno. Ma tu devi aver vinto, o non saresti qua a far passare trecento grammi di pane oltre il sensore dell’archiviazione dei prezzi. Quello che ho visto mi mette a disagio, mi fa male una spalla mentre dici qualcosa riguardo alla mancanza del resto, e vorrei dirti che neanche io conosco il resto, tutte le esperienze che rimangono da vivere, ma che in fondo ho fiducia. No, a te mancano i centesiminimi. Annuisco e lascio due eurocent in omaggio alla coop [e questo alla faccia di chi pensa che io sia tirchio]. Lento metto la spesa in una busta logora che ho portato da casa, le birre nello zaino, e intanto ti guardo ancora: scrivi con gesti rapidi su un pezzetto di carta, non credo sia una lettera d’addio, più probabile un appunto per ricordarti il resto e continuare a lavorare, nonostante adesso possa sentirti da schifo, senza centesimi, illuminata dal neon, a doverti relazionare con estranei disinteressati. Non fai più caso a me, chiedi qualche secondo alla donna con l’olio di girasole. Anche questa storia è finita, devo ripartire
Mentre me ne vado e sono già girato sorridi meno tesa, e pensi che quando rifarai la pizza per i tuoi bambini e per la persona che ti ama dovrai stare più attenta, o comunque comprare una presina che copra le braccia un po’ più della tua, per quando estrai le teglie bollenti.
Di solito guardiamo il mondo in maniera sincronica al nostro punto o momento d’osservazione.
È il mio turno: la cassiera è over 30, mora, di carnagione scura, non bella, ma forse non è possibile definirla esteticamente a causa dell’espressione perduta, una disperata silenziosa incrinatura degli occhi che chiedono aiuto; le sorrido cercando di essere sincero, vorrei essere una presenza benevola nel tentativo di non peggiorare la vita a una persona che vede passare troppe persone, troppe abitudini alimentari ogni giorno. Lo sguardo che restituisce al mio sorriso le rende buffo il naso un po’ troppo grosso, poi mi accorgo che il naso è buffo e un po’ troppo grosso comunque, e che i suoi occhi non mi hanno mai visto perché passati attraverso e oltre ancora la signora che ama l’olio di girasole dietro di me, al di là degli scaffali verso un possibile punto di fuga. Il nastro si muove a scatti, passa la prima bottiglia e suona il telefono, uno strano citofono messo in orizzontale da cui, una volta alzato, non esce più suono; lei non sa cosa significhi, è tesa, la magrezza accentua i tendini delle mani tirate nel gesto infinito di dover prendere oggetti e passarli veloci, ascoltando l’elettronico BIP! ripetersi con un’aritmia lancinante. Le passano tra le mani le zucchine e le carote con bacilli, prima che qualcosa smetta di funzionare per alcuni secondi: il codice a barre sui pomodori non produce alcun suono. Basta poco per tenderla ancora, le unghie le si conficcano nella buccia dei solanum lycopersicum mentre scuote con troppa violenza il piccolo tagliando di carta appiccicosa incollato sulla plastica fragile della busta, se qualcosa non vi torna è perché ho comprato sia i pomodori interi che la polpa di pomodoro che i pomodori secchi sottolio, va bene? La macchina torna a funzionare ma la cassiera non può più nascondere quello che si è intravisto per un momento oltre le maniche della camicia: una lunga, bianca, obliqua cicatrice che le attraversa il polso destro.
Cos’è che non va, cassiera sconosciuta? Questo lavoro non può andare bene a nessuno, non per sempre, ma quella cicatrice sembra vecchia anche se male assorbita e ancora peggio occultata; ma a chi vuoi che importi, qua in mezzo, chi è che ha tempo da perdere a guardare i polsi di una cassiera triste? Lo sfregio non è esteso, ma sembra esser stato molto profondo, come a volte si è profondi anche se si finisce a lavorare alla coop, per potersi permettere la comodità di fare la spesa quando finisce il turno. A volte è difficile trovare l’ispirazione necessaria a vivere, necessaria come fare la spesa, e si finisce per cercare di finire, di finirci; ci vuole poco, basta unire ai soliti acquisti un pacco di lamette da barba, di quelle un po’ vintage per mariti più vecchi di noi, che sono scappati dietro alla donna delle pulizie appena immigrata. Basta aprire la scatola aprire noi stessi e aspettare che smetta di pulsare; e pensare che non posso permettermi di parlare per stereotipi di un gesto così intenso, come a volte si è in tensione anche se si finisce. A lavorare alla coop. Ma forse, cassiera commessa, il tuo era un gioco, una roulette russa in cui non mancano pallottole ma motivi per vivere, e si perde al contrario, se non se ne trova neanche uno. Ma tu devi aver vinto, o non saresti qua a far passare trecento grammi di pane oltre il sensore dell’archiviazione dei prezzi. Quello che ho visto mi mette a disagio, mi fa male una spalla mentre dici qualcosa riguardo alla mancanza del resto, e vorrei dirti che neanche io conosco il resto, tutte le esperienze che rimangono da vivere, ma che in fondo ho fiducia. No, a te mancano i centesiminimi. Annuisco e lascio due eurocent in omaggio alla coop [e questo alla faccia di chi pensa che io sia tirchio]. Lento metto la spesa in una busta logora che ho portato da casa, le birre nello zaino, e intanto ti guardo ancora: scrivi con gesti rapidi su un pezzetto di carta, non credo sia una lettera d’addio, più probabile un appunto per ricordarti il resto e continuare a lavorare, nonostante adesso possa sentirti da schifo, senza centesimi, illuminata dal neon, a doverti relazionare con estranei disinteressati. Non fai più caso a me, chiedi qualche secondo alla donna con l’olio di girasole. Anche questa storia è finita, devo ripartire
Mentre me ne vado e sono già girato sorridi meno tesa, e pensi che quando rifarai la pizza per i tuoi bambini e per la persona che ti ama dovrai stare più attenta, o comunque comprare una presina che copra le braccia un po’ più della tua, per quando estrai le teglie bollenti.
Di solito guardiamo il mondo in maniera sincronica al nostro punto o momento d’osservazione.
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