venerdì 28 dicembre 2007

domenica 16 dicembre 2007

venerdì 26 ottobre 2007

LOOOP

[ racconto in 13 / squarci e alcune variazioni appena sussurrate ]

Sono trafugati i baci che si danno e ricevono quando uno dei tuoi piedi è già pronto per partire preferibilmente con il resto del corpo attaccato: senti appena le labbra sfiorarti e vorresti essere stato più convincente, anche se il pensiero che non manca molto [nei confronti dell’eternità ma forse anche di un giorno] a rivedervi illude di poterti permettere questi lussi di carenza emotiva; è quindi con un piccolo cruccio privato che prendi posto nel punto più basso che ti è concesso occupare, e con aria di risoluta noncuranza ti assetti nella breve attesa che il motore del n°1 alzi i giri e ti porti lontano dalla frastornante fibrillante frustrazione del sabato sera, della necessità mortale di rendere questo giorno di letizia anche di molte altre persone [non ti compiaci più con te stesso come un tempo per i banali giochi di parole, forse che avere uno spirito pronto non sia più una priorità rispetto ad avere uno spirito e basta].

Osservi, come mamma semiotica adora vederti fare, con l’occhio di falco erudito e critico, pronto a calare per sbranare senza pietà le vite degli sconosciuti che condividono con te questi 40 centimetri sopra l’asfalto, questi miseri 10 minuti di transizione da A e B, questi pochi metri di spazi privati a contrasto, variabili soggettive predeterminate.

Un tram del sabato sera è composto da un assortimento non ricco ne particolarmente variegato, e tu fai parte di questa elite annoiata in cui cerchi di crearti un ruolo che a nessuno fregherà di svelare, un contegno senza spocchia per confonderti e sparire, mischiare il tuo [quasi] vivo organismo con la plastica dei seggiolini per ottenere un ibrido di [quasi] immobile natura; ma se il “TU” di cui parliamo non fossi io saresti un anziana signora silenziosa accanto al suo leggermente più giovane consorte impegnato in vacui discorsi con una ragazza di circa 14 anni, saresti una donna turbata con un gilet rosso, una ragazzetta di 13 anni con il suo chewing-gum, un ennesima femmina dai tratti orientaleggianti al cellulare.

Sono queste le persone che neanche adesso sanno che esisti, e se lo sanno è solo per aver considerato di avere altri umani intorno; mi sembra incredibile come a nessuno mai venga voglia di svelare un intimo segreto custodito dal seggiolino al tuo fianco, come nel non conoscere noi stessi alla fine si perde la voglia di conoscere anche gli altri, sicuramente simili in noi per la spossante banalità che tutto cinge e divora nella sua routinaria crudeltà: perché è di questo che si parla, di “routine”, LOOP nel gergo di chi è abituato a veder ritornare fraseggi, pause, concetti rumorosi che ripetono se stessi ammettendo solo impostati e delimitati mutamenti.

L’anziana potrebbe non esistere sotto i suoi occhi seri: dalla tua posizione non puoi che scorgere dei capelli troppo neri e voluminosi e uno sguardo che respinge ogni oggetto come sgradito alla vista; sono gli occhi duri di chi non ha più niente di interessante da vedere, resi muti da una grigia patina di disinteresse, lontani dal potersi posare con rilassata quiete su di un oggetto desiderato, sopra un immagine che rinfranchi il cuore e distenda il volto rilassato nella sua perenne contrazione; è questo squarcio di volto a darle la cadenza con la quale si dimena immobile dal suo posto a sedere, è con questa perenne condizione di vuoto che la testa si gira a sinistra, torna centrale, si protende in avanti per poi inclinarsi a destra e ritornare diritta indietro assecondata dagli scossoni della vettura.

Il potenziale marito di questa è un uomo ben più completo, visto che è possibile scorgerne quasi la figura intera, ad eccezione di un piccolo lembo della sua parte destra, coperta dal seggiolino dietro di te; indossa vestiti di poco gusto con colori un tempo saturi ma ormai sbiaditi che sintetizzano egregiamente il volto di quest’ultimo: un sorriso sincero ma ormai stampato, legato da alcune rughe a occhi a mezz’asta, stanchi di dover reggere ogni momento questa sembianza un po’ grottesca di benessere ideale; ma c’è di più: nel suo pretendersi avanti e poi a destra verso la sua interlocutrice, poi sorridere un po’ più forte, tornare indietro e annuire finendo col chinare la testa per lo sforzo, nell’afferrarsi le mani e ripetere daccapo i gesti c’è l’ammissione al pubblico dei non osservanti [te escluso, come ti senti importante!] che sulla sua prolissa beniamina vorrebbe stamparcisi, abbandonando il tram con dentro la compagna tardona e fare follie anche solo per un secondo con questa giovane partner che così ingenuamente ma forse non così ingenua segue il gioco dello sguardo indagatore, lo sguardo che attende paziente il segnale di cedimento e timida ammissione di un interesse ricambiato.

Al contrario la ragazza che gli sta quasi di fronte ed esiste solo con la cuffia di un I-Pod incastrata nel suo profilo sinistro [che è tutt’altro che sinistro] è più che mai lontana dal poter concepire una qualsivoglia perversione con il pover’uomo probabilmente amico del padre in carriera o della giovane madre casalinga; lei è talmente rapita dalla propria voce da non potersi permettere una sosta a riflettere sulle parole proferite, sui concetti generali che mischiano così sapientemente cucina, benessere personale e questioni di politica “sociale”; si destreggia tra gli argomenti, ostenta conoscenze banali sapendo miscelare con cura umiltà e superbia, condendo il tutto con una gestualità scattante tipica del fermento cerebrale in atto, azionando le articolazioni rotatorie del polso destro per accompagnare i discorsi mentre la mano sinistra si alza e si abbassa stringendo a morte un ammasso di chip straziati dalla loro multifunzionalità estremamente sfruttata [il cellulare]; la testa seguita dal busto si dondola in maniera garbata avanti e indietro alternando passaggi fluidi a scatti composti, marionetta elettronica con collegamenti imperfetti.

La donna turbata di rosso guarda fuori dal finestrino, e se il vetro non avesse proprietà riflettenti potremmo dire che la sua faccia è orribilmente sfigurata, ma a quanto pare i motivi della sua preoccupazione risiedono fuori, da qualche parte tra le luci della città che si mischiano lente a quelle del grande cimitero comunale, città di morti certi che sfidano i vivi a dimostrare di non somigliarli; l’inquietudine si manifesta nelle mani, scorre attraverso le dita intrecciate che vanno sciogliendosi per permettere a una mano di afferrare l’altra, stringendo per poi tornare lentamente nella posizione iniziale e ripetersi fino a quando non ci sarà un motivo valido per non torcersi in agonia; chi è il tuo aguzzino? Chi gioca con le tue percezioni emotive? Chi merita tutta questa tensione? Ti auguro di risolverti, anche se non sarò io ad aiutarti se non dicendo che al mondo c’è un'altra persona triste che aspetta.

Due uomini tendenti al vicino oriente salgono e si frappongono alla prossima vittima, entrando a far parte di un gioco di cui non sanno le regole o di far parte; c’è un malcelato rapporto di sudditanza del primo, magro e chiuso fisicamente in se stesso, che osserva il secondo, rubicondo per non dire grasso, extracomunitario per non dire albanese, che muove la testa fiera a destra e sinistra accompagnando con gli occhi il movimento, aspettando che qualcuno li giudichi o li arresti, non saprei dire; non hanno timbrato biglietti e in 3 fermate sono arrivati, scendono silenziosi e non aggraziati, senza cambiare espressione: mesta rassegnazione e orgogliosa pacioccosità di chi mangia dal piatto dei suoi involontari ospiti [inteso come coloro che ospitano, maledetti termini a doppio significato]; sono scesi, riparte il gioco senza che i 2 vi abbiano apportato interessanti variazioni.

Masticare: c’è un loop più intrigante e coinvolgente che rigirarsi un pezzo di gomma commestibile tra i denti e la lingua? Finché c’è sapore di menta nulla è più importante di questo accessorio per l’alito, e quando si spegne ogni sapore rimane uno splendido TIC nervoso di massa; lei mastica il chewing gum come una ragazza di 13 anni che non ha ancora avuto la briga di imparare il significato pratico della parola “sexy”, ed è molto meglio così: il suo agitare le mandibole è semplice ma impegnato in qualcosa che fonde i pensieri con un moto biascicatorio piuttosto appariscente; gli occhi sono persi in giro, sfiorano angoli e superfici superficiali, senza lasciare nulla impresso sulla retina che non possa subito rimescolarsi con un oggetto di pari [nullo] valore; spero sia davvero così spensierata, quando avrà voglia di sapere come corrompersi tutto il pianeta che la circonda sarà pronto a darle una mano.

Tristezza portami via. È l’ultima anima che più mi impietosisce dall’inizio di questo breve iter di consapevolezza falsata aggiuntiva; ginoide [versione femminile dell’androide, non so se esiste un termine tecnico migliore] fabbricato nell’Est ma adattato all’Occidente si illude di aver stabilito una connessione con un suo simile tenendo attivo un apparecchio malefico che le devono aver trapiantato in un orecchio; si getta con tutto il corpo abbandonandosi su un sedile, poi riprende posizioni composte inarcando leggermente le spalle e girandosi verso il finestrino per schermarsi dall’indiscrezione che le sue frasi possono suscitare in noi compagni viaggiatori. Pena gioia frustrazione sorrisi e bronci passano standardizzati sul suo volto, alternati da funzioni semi randomizzate, in cui potremmo trovare una logica, un filo conduttore che ci porti a capire che non c’è niente all’infuori di questo continuo vano tentativo di comunicazione, che la vita può essere rincorrersi attraverso frequenze che passano dallo spazio per arrivare spesso a pochi metri da noi; ma per questi non c’è requie né pietà, non parole compassionevoli che vi accompagnino nell’era del corpo digitale perfetto; assemblatevi e Addio!

Sono arrivato, devo scendere e vorrei poter salutare tutti coloro che mi hanno intrattenuto mostrandomi come piccoli loop siano iscritti in melodie più grandi, da me inafferrabili ma solo percepibili attraverso le piccole ripetizioni che formano poi il tutto che è Vita, o totale mancanza di questa. Vorrei dimostrare che sono stati importanti, che una piccola ma non troppo parte della mia esistenza è dedicata a sconosciuti disinteressati forse anche da se stessi, senza domande da porre o risposte da dare a chi cerca in loro significati da aggiungere alla propria continuità, che altro non è che la ripetizione di un processo millenario inscritto nel loop del moto terrestre e della sua evoluzione, a sua volta piccola parte di una sinfonia universale magistralmente diretta da orchestre siderali in perenne, metodica, infinitesimale variazione.

Ma non erano 13 gli squarci? [dormi…]

domenica 22 luglio 2007

tutto quello che avreste voluto sapere sulle alghe e non avete mai osato chiedere!

Quiete di Sabbia


Risacca. Lembi d’acqua mi scorrono attorno ai piedi poggiati sulla Sabbia, rimuovendo lentamente i granelli superflui da sotto di me, portando via una sottile lamina della spiaggia che mi circonda e risuona di urla e cellulari e si fonde con il grasso proveniente dall’inizio del nuovo e del vecchio secolo insaccato in plastiche idrofobe. Ho compiuto da poco 9 anni e ho i capelli neri e lunghi, ma questi 2 eventi non sono consequenziali; la conseguenza del primo caso è che dietro di me i miei presunti genitori, discorrendo animatamente con i vicini di ombrellone, si sono dimenticati della mia esistenza per esaltare le alte qualità che vedono rifulgere in me [fin da questa tenera età] con gli occhi illusi pieni della speranza in una fortuna che non hanno avuto modo di ottenere con le loro misere forze; la conseguenza del secondo evento è che sono mora e ho caldo, e nel cercare refrigerio mi sono diretta fino alla soglia.

La soglia non è come la sogliola, che è un pesce. La soglia è come un anfibio astratto, sta tra il Mare e la Sabbia asciutta; in questo lembo di realtà c’è troppa poca acqua per poter sostenere di essere nel Mare e si è più bagnati di quanto può essere bagnata una persona sulla spiaggia, a meno che non sia appena uscita dal Mare; ma in questo caso non parliamo di soglia o di sogliole, ma di bagnante, che è un errore grammaticale perché il bagnante non è colui che bagna, ma colui che è bagnato; fortunatamente un ipotesi non esclude l’altra, quindi non siamo costretti ad entrare nel campo del paradossale. In realtà non andiamo da nessuna parte, perché io sono sulla soglia a fissare le mie caviglie mentre l’acqua le rinfresca, e con loro rinfresca tutto il resto del corpo. Che buffo, i piedi sono scomparsi nella Sabbia a forza di acqua che toglie granelli; questo è importante per capire come eventi importanti partano dai piccoli gesti fatti con costanza e decisione. Il Mare è un tipo deciso, perché è da quando sono nata che ogni anno ci vengo [e questo fa della mia una famiglia decisa ad andare al Mare], e ogni anno lui fa lo stesso movimento da appena arriviamo finchè non ce ne andiamo; non so se prima o dopo faccia altro, non posso saperlo perché le foto sul Mare che guardo d’Inverno sono tutte immobili. Il movimento che fa il Mare si chiama risacca; se metti il tuo corpo nel Mare e rilassandoti pensi di essere spuma e onde entri a far parte della risacca, ma poi i genitori iniziano a urlare che sei morta e devi smettere. In questo modo non si è mai risacca fino in fondo, ma in quei pochi attimi puoi pensare di non essere più importante di una bollicina d’ossigeno che si scontra e si ama con 2 di Idrogeno, e non so se questo è un pensiero stupido, io lo trovo molto leggero; il Mare è un ballerino che non è mai tirato indietro ogni volta che ho voluto danzare con lui; il Mare è un amante segreto, perché i miei genitori non lo sanno, ma noi ci baciamo tra le onde. Bacio anche la Sabbia, e non so se il Mare se n’è accorto, ma spero comunque che non sia geloso, perché ogni volta che fa diventare troppo fresco tutto intorno a me mi rotolo nella sabbia calda e su di me il Mare e la Sabbia diventano soglia, ed è come se io fossi il collante tra 2 mondi. Il più geloso di tutti su questa spiaggia è il Sole, perché quando si accorge che sto sospesa nella soglia fa sciogliere il Mare rimasto su di me, e la Sabbia triste scivola via; ad ogni modo non odio il Sole, lui non ha amanti ed è Solo [che penso fosse il suo primo nome, poi qualcuno deve aver sbagliato all’anagrafe]. A volte mi perdo nei pensieri su quello che mi circonda, perché ci sono molte cose bellissime e altrettante orribili su cui soffermarsi mentre il Mare ti lambisce le ginocchia.

Alcune tra le cose brutte delle spiagge si chiamano vecchi; io ho una nonna bellissima e tutti dicono che è vecchia, ma per me è solo nonna. Invece i vecchi delle spiagge sono come le balene, non capiscono nulla della risacca e la usano solo per arenarsi e dalla loro posizione riversa lamentarsi di quanto sia crudele la vita per una balecchio arenato. Alcuni di questi sono così brutti che la loro pelle vuole andarsene e si allunga molto, ma alla fine non ce la fa mai a fuggire e rimane sui vecchi, rendendoli ancora più brutti. Mia mamma dice che la bellezza è relativa, e non devo parlare così perché per ora sono giovane e bella ma un giorno sarò come loro; io penso che mia mamma è un po’ cretina se pensa che io voglia diventare così da grande; però le sorrido lo stesso e annuisco perché sono compassionevole. In realtà sulla spiaggia ci sono anche dei nonni, che a prima vista possono sembrare come i vecchi, ma bisogna essere proprio scemi per confonderli. A parte che sono visibilmente più belli e agili si distinguono per un particolare fondamentale: il nipotino accanto; non importa sul il nipote è brutto e grasso e piange, il nonno gli vuole bene e con questo si distingue dal vecchio. Non so cosa succede se togli il nipotino al nonno, ma penso che questa eventualità non sia possibile, quindi è con la Sabbia tutt’intorno alle cosce che posso affermare che da grande, ma molto molto grande, voglio essere nonna.

Altre cose simili alle balene sono le persone grasse, ma da piccola [perché si può essere più piccoli di così ma capire lo stesso molte cose] mi hanno insegnato che alla fine bisogna cercare di evitare di puntare il dito verso le persone e dire loro cosa si pensa guardandole, perché la Verità brucia più del Sole d’Estate, e brucia tutto l’anno; io non sono cattiva, e quando mi si dice che qualcosa può far soffrire le persone più di quanto già soffrano io non la faccio, desiderando forte che i problemi possano risolversi sempre. Poi vengo al Mare, e vedo che non si sono risolti; poco male, si risolveranno, e se anche questo non succederà il mio dito inquisitorio rimarrà stretto nel pugno, e non proferirò parola riguardo a ciò che non è bello almeno quanto me.

Questo può essere un problema visto che mi è stato insegnato da sempre che non c’è niente più bello di me, anche se vedo tante cose che potrebbero farmi concorrenza: un surf che segue il respiro del vento, la brezza salmastra, la decapitazione di un gelato, il costume del bagnino, le persone che si baciano sulla sabbia ignorando la dimensione pubblica dell’esistenza, i granchi che scompaiono nel tempo di un onda. Questo si è un fenomeno eccezionale: i piccoli esseri chelati si nascondono nella Sabbia sotto al Mare, in dei canaletti che si formano naturalmente grazie alla risacca; quando qualcuno ci passa sopra o accanto i crostacei escono e iniziano a camminare storti verso un punto imprecisato, fino al momento in cui vedono [grazie anche al fatto di avere gli occhi su dei pispoli infilati nella schiena] un onda che gli passa sopra, spumeggiando e infrangendosi, creando un discontinuità tale nella percezione di tutti i potenziali osservatori che i granchietti si sentono al sicuro per darsi degna e immediata sepoltura. Da poco mi è passato accanto un ragazzo un po’ scemo che si è messo a inseguirne uno, ma l’ha perso in uno di questi momenti di nascondimento; questo lo so perché adesso il granchio è nella sabbia e mi sta pizzicando sotto all’ombelico. Il ragazzo se n’è andato placido con le braccia dietro la schiena, penso che si senta molto importante e abbronzato, invece è solo rosso; ho visto che mi guardava e sorrideva, ma non credo di piacergli, credo più che pensasse di scrivere una storia su di me, o usarmi come pretesto per raccontare parte delle sue vacanze da spocchioso qualunquista sputasentenze; credo che ci riuscirà. Nel frattempo il granchio se n’è andato dal mio stomaco e, visto che sento i movimenti un po’ impacciati, sto immobile e contemplo il Mare, che con il suo moto perpetuo sembra voglia chiamarmi a se.

Anche ieri notte faceva così: c’era la Luna piena che rifletteva sul Mare interrotta a tratti dalle nuvole; anche il suo riflesso risultava distorto e discontinuo, tanto da farmi pensare che tante lune quante erano le luci separate nel Mare aspettassero solo un cenno della sorella maggiore per sorgere e splendere con lei; ma non è successo, e le mie palpebre si sono fatte pesanti, tanto da nascondermi la vista e riaprirsi solo stamani, quando mi sono trovata nel letto e già il Sole splendeva oltre le tende di plastica rigida con fori a scorrimento verticale [giuro non mi viene il termine tecnico]. Non so chi abbia istituito questa convenzione internazionale su quante e quali devono essere le ore di sonno, ma secondo me l’attuale piano di veglia e coricamento necessita di un aggiornamento: ma dove si è visto che un momento della giornata così importante e profondo se ne vada vanificato nel sonno dello stanco come dell’annoiato come per il mondo civilizzato degli orologi. Acqua e sabbia mi finirebbero sul seno se ne avessi uno, ma ciò non accade, anche se nonostante questo continuo a coprirmi lo stesso queste zone, perché mi hanno spiegato [e se non l’hanno fatto ho capito da sola] che l’immaginazione ha potere sugli occhi e ciò che riescono a vedere.

C’è comunque un altro strano evento a cui può capitare di assistere se si viene al Mare, soprattutto in spiagge in cui ci sono molte persone giovani [ma non più giovani di me]: le ragazze della nostra specie, pur coprendosi il seno, più ne hanno e meno lo coprono; i più furbi di voi diranno che è una normale conseguenza del fatto di avere la stessa superficie di tessuto per coprire una diversa quantità di seno: illusi! Le più procaci di queste sirenette dal bikini minimalista se ne stanno in giro spalmate di ultrabbronzante e di uomini bozzoluti dagli slip bozzoluti, che a me fanno ridere e non solo a me, visto che ho notato le ragazze e le mamme delle ragazze guardare e ammiccare compiaciute. Un uomo con un costume-slip è un po’ come una pera rovesciata a cui, per coprire il picciolo, è stata messa una foglia ritagliata a forma di picciolo; che senso ha? Nessuno, ma l’umanità la chiama morale, o pudore, e così si sente protetta dalla vergogna di mostrare che sotto la foglia qualcuno deve aver già tolto il picciolo, lasciando solo un moncherino rugoso. Comunque queste creature balneari sembrano gioire della reciproca compagnia, scherzano, si rincorrono, tra bitorzoli si picchiettano per finta mentre le sirene emettono acute grida di approvazione e giocosità. Viene da chiedersi come mai Ulisse sia rimasto incantato dal loro canto [ed è meravigliosa l’assonanza tra queste 2 parole]; i suoni che sento mi punzecchiano il cervello, e anche quando parlano normalmente i concetti espressi fanno venire voglia di sprofondare per non dover più sentirsi parte della stessa razza.

Ora che ho il mento appoggiato sulla soglia il mondo ha assunto una prospettiva diversa ma, nonostante le persone possano sembrare dei giganti, capisco che sono di nuovo gli occhi a trarre in inganno, e che spesso la prospettiva da cui si vive può alterare il modo con cui osserviamo il Mondo scorrerci accanto indifferente. Può sembrare strano, ma il sole annebbia, dentro la scatola cranica fa bollire il cervello e con lui i pensieri, le preoccupazioni, le questioni non risolte o irrisolvibili; quasi tutte le creature marittime sono qui per farsi evaporare il cervello! Ma non tutto il pianeta è coinvolto in questa spirale perversa di auto-annullamento: sulla sabbia qualcuno si pone ancora delle domande, ma le risposte non sembrano interessare, meglio inseguire un astratta potenzialità che rivelare la banalità di non riuscire a spiegarsi tante, troppe cose. È così che viviamo, inseguendo la risacca del Mare senza riuscire a starle dietro, altalenando tra condizioni umane senza capirle, e sentendoci divini, speciali, unici per qualcosa che, come tutti, abbiamo soltanto noi. Ingoio una respiro di sabbia mentre i miei occhi del colore del ghiaccio al polo-nord osservano la superficie del Mare perdersi in lontananza, interrotta solo dai corpi più o meno a galla dei bagnati che si immergono per sfuggire al resto dei problemi della loro vita… e non so perché ma sento che molti di loro se lo meritano, e che tutta questo tentativo di ricerca di consapevolezza è solo l’ennesima chimera che vediamo scomparire nel tempo.

Le palpebre e i pensieri si fanno pesanti quando arrivano al livello della soglia, posso sentire passi leggeri nelle vicinanze risuonarmi nei timpani mentre la sabbia li riempie, le creature che abitano sotto le spiaggia mi accolgono scavandosi un varco dentro di me, rendendomi parte integrante dell’ecosistema che regola la Natura, e mentre tutto questo accade continuo a sprofondare in basso, lontano, lentamente, inesorabilmente granello dopo granello il mio corpo scompare alla vista…

In superficie dei genitori hanno smesso di parlare e fantasticare, stanno chiamando un nome; nessuno risponde, quel nome oramai non appartiene più a niente, se non a un mucchietto di alghe nere, di quel nero intenso come erano i miei capelli.

20 . 08 . 07

giovedì 24 maggio 2007

V i R G O


Raccontaci una storia, papà castoro; noi te lo chiediamo in coro. Qualcuno forse non saprà che c’era una musichetta inquietante nella sigla che vedeva riunirsi una famiglia di castori [anche se nel mio immaginario sono conigli] intorno ad un anziano; i cuccioli, con gli occhioni luccicanti [appartenenti in effetti più ai conigli che ai castori] lo imploravano di narrare le vicende di qualcuno dei simpatici animaletti del bosco. Tralasciamo l’assonanza che potrebbe portare alla coniazione di termini rocamboleschi come “c a s t o r i a”, e prendiamo in considerazione quanto è bello quando qualcuno ci culla con le sue parole, forse anche giacendoci nelle braccia, narrandoci i fatti in maniera che risultino così belli da non poterlo interrompere fino alla fine. E che piccola soddisfazione invece quando siamo noi nelle braccia del consorte, a narrare, e l’altro ci osserva, silenzioso, estasiato, rapito e per un attimo più vicino.

Ecco, a me non succede: io sono palloso. Me lo hanno detto in tanti, partendo dai miei genitori fino agli amici più intimi [ma non COSÌ intimi, come siete maliziosi]. Non mi si regge, parlo male, le cose le prendo alla larga, impasto, uso un linguaggio difficile, troppi aggettivi, non si capisce quando dico una cazzata, mi puzza il fiato, sono surreale e sputazzo mentre articolo le parole; forse ce ne sono ancora ma fermiamoci qua, è abbastanza per il mio povero cuore sensibile. Sarà per questo che scrivo? No, perché all’incirca scrivo come parlo, e quindi se devo far schifo alle masse non cerco di smentirmi. Però c’è una cosa di cui sono sicuro: la gente mi legge molto più di quanto mi ascolti. Non voglio fare il polemico, è una questione di statistica, e visto che digitare [ebbene si, basta la poesia con papiro e calamaio al chiaro di luna] parole mi riesce con medio-alta velocità… eccoci qua!


Perché tutta questa pallosissima introduzione se tanto questa storia manco è mia? Semplice. Io vi ho parlato, parlandovi di me, e finchè non avrò spento questo aggeggio continuerò a usare le storie mie e degli altri per riflettere il maledetto egocentrismo. La storia che vi propongo me l’ha raccontata un amica, importante come solo le amiche di un ragazzo possono essere: ci offrono la consapevolezza di che cosa vuol dire essere diversi, e a volte possono farcelo pesare, ma non fanno mai mancare quella dose di emotività che spesso ai maschietti sfugge. È per questo motivo inconsapevole che metamorfizzerò la storia che mi ha raccontato, sarò filtro impuro dei suoi pensieri, offrendovi e offrendole la MIA versione dei fatti. Che stronzo, direte. A volte avete proprio ragione…

C’è una volta, nel lontano paese di Castoria [bellissimo nome per una città] una principessa, tanto bella quanto poco apprezzata dai suoi futuri sudditi. Aspettate un attimo però, che adesso ho in mente Castoria e ve la descrivo: Castoria sorge su di una montagna, così ripida e in alto che spesso, svegliandosi al mattino, è possibile guardare dalle finestre a picco e vedere le nuvole sotto di se; è in questi momenti che gli abitanti si sentono più vicini a Dio, anche se qualcuno preferisce semplicemente sentirsi Dio. La gente che abita lassù indossa vesti larghe e raffinate, anche se costruite con quei materiali ispidi e filamentosi strappati direttamente al corpo degli animali dei loro allevamenti: pecore, mucche, orsi, pantegane e mammuth, ma soprattutto castori [che per l’appunto danno il nome alla città]. Ci sono migliaia di castori che vengono utilizzati ogni giorno come cibo, vestiario, vasi per fiori, giochi [“lancio del castoro”, “strappa e cuci il castoro”, “fai accoppiare il drago di plastica col castoro” sono solo alcuni tra i più famosi]. Il paese è di forma triangolare, ma penso che sia piuttosto difficile da immaginare come, e adesso cerco di spiegarvelo: il monte su cui sorge Castoria è quasi perfettamente conico, quindi, guardandolo da un satellite, vedrete un cerchio con un punto nel mezzo. Concentrico e più piccolo c’è un semicerchio poco distante dal centro, dalle cui estremità partono due segmenti piuttosto corti e di uguale lunghezza; dalla fine dei segmenti partono altri due segmenti uguali che si riuniscono, senza includere il centro ma dalla parte opposta, in modo tale che la lunghezza di uno di essi sia uguale alla distanza tra l’estremità dei due segmenti uscenti dalla montagna. Forse è più semplice se vi dico che Castoria è un triangolo messo per Orizzontale nella montagna, che è stata scavata e pende sopra alle teste di circa metà Castorini, nonché sul Palazzo Reale dove abita la creatura precedentemente citata e subito abbandonata. La nostra bella principessa si chiama Virgo, ed osserva il suo regno svogliata mentre inizia la nostra storia.

- Che esistenza triste essere una principessa, non mi caga nessuno in tutto questo regno di montanari mandrilli senza stile e con la fiatella. Qui l’uomo medio si sveglia all’alba, violenta sua moglie mentre mangia una cipolla con i fegatelli di castoro, esce per andare all’allevamento o a scavare la montagna, torna a casa la sera al tramonto, violenta la figlia diciassettenne mentre mangia la zuppa di castoro e cipolla e se ne va a letto. A me non mi violenta nessuno e il castoro manco mi piace. Ah, come sono triste… -

Questi sono i pensieri della povera nobildonna, incatenata dal suo rango a un esistenza alienata. Suo padre è molto malato e non l’ha mai sfiorata; è uno di quei retrogradi che pensano che le donne vadano rispettate e debbano conservare il sacro fiore per farlo sbocciare quando trovano l’uomo della propria Vita, o perlomeno uno schiavo distinto. La ragazza ha già da tempo superato l’età in cui le coetanee perdono la verginità [11 anni], e si sente come menomata di un suo diritto fondamentale; ma lei sa il motivo di questo fatto. Quando aveva solo 3 anni suo padre fece gettare dal vertice della città una donna molto vecchia, che si diceva durante la notte rapisse i castori e mettesse al loro posto del guano modellato a forma di NokiaN70 alto quasi due metri. Il Re, che al tempo era ancora in forze, andò di persona a darle il “sacro spinterello” [calcio nel sedere] per gettarla di sotto; ma mentre la vecchia cadeva urlò una maledizione secondo cui l’unicogenita del re non avrebbe mai preso un cazzo manco a pagarlo [probabilmente si espresse in modo più forbito, ma lei non può ricordarselo ed è così che gliel’hanno raccontata]. Così Virgo crebbe sana bella e illibata, fino ad oggi, che la ritroviamo deperita, bianchiccia e con una voglia di sesso che manco due castori con la sindrome del coniglio tenuti in gabbie separate hanno. Virgo osserva il mondo dal Palazzo d’Ombra, la sua dimora su cui il Sole batte solo per 3 minuti al giorno, quando è perfettamente in linea col vertice della città, poco dopo l’alba. Lei si sveglia tutte le mattine presto e piange sulle coperte di seta; poi, asciugatasi gli occhi col suo fazzoletto in pelle di castoro, osserva il Sole apparire e irradiarla, riscaldandola di quel calore che solo un altro essere umano sarebbe in grado di ricreare. Poi il globo infuocato scompare, e lei rimane immobile, aspettando che il freddo l’attanagli di nuovo.

Non è corretto pensare che non abbia mai avuto nessuno al suo fianco o dentro la sua bocca, ma tutte le volte qualcosa è accaduto nel momento cruciale in cui Virgo avrebbe potuto scongiurare la maledizione. Nella sua vita ci sono stati 3 aitanti giovini, uno dei quali un forestiero che venne gettato giù dal vertice per aver augurato fortuna usando l’espressione “in culo al castoro”, severamente proibita da un editto regio. Tutti, dopo aver sedotto l’avvenente principessina e aver invaso le zone limitrofe alle papille gustative, avevano provato a introdursi nelle regali mutande, ottenendo come risultato la contrazione dei muscoli di Virgo e il consequenziale irrigidimento del corpo di lei e della situazione; scusandosi si erano allontanati per non farsi più rivedere. All’ultimo, che addirittura aveva provato a metterci le mani erano state tranciate di netto 3 dita e se ne era andato grondando sangue sulle candide lenzuola del palazzo reale. Da allora Virgo giace immobile sull’enorme terrazza dalla quale il padre emetteva le condanne a morte, scrutando l’Orizzonte, conoscendo i suoi coetanei con gli occhi bagnati di lacrime per non poter condividere con loro pensieri e sentimenti. Che esistenza triste essere una principessa.

Succede, un giorno come tanti, dopo che il Sole ha già salutato il Palazzo d’Ombra, che Virgo, osservando svagata il fluire continuo della piazza, nota un giovane che non aveva mai visto prima. Avrà solo pochi anni più di lei, ma sembra impregnato di quei profumi Orientali che ti avviluppano solo dopo che hai conosciuto il Mondo intero. Cammina disinvolto, non ha paura dello sguardo delle altre giovani, che lo mangiano con gli occhi ed emettono gridolini di apprezzamento. Lui non ricambia le cortesie e questo le fa scogliere ancora di più; passa tra le bancarelle di pesce marcio e accessori in plastica per piccioni viaggiatori, scuotendo con la sua bellezza perfino i mercanti più duri. Poi si ferma; con la sua chioma nera e gli occhi scuri si volge verso la grande reggia nell’oscurità. Virgo è immobilizzata: non riesce a capire cosa le succeda, probabilmente da quella distanza non può manco vederla, eppure sente lo stomaco attorcigliarsi e capisce che c’è qualcosa in quello straniero che deve assolutamente conoscere.

- Rufus… RUFUS… Voglio quello, voglio l’uomo nuovo in mezzo alla piazza. Lo vedi, vile ammasso di peperoni e sudore? Vammi a prendere il ragazzo baciato dal Sole! -

Dimenticavo che Virgo, da buona futura Regina, non è mai uscita dalla sua dimora. I ragazzi che desidera le vengono sempre recapitati a domicilio in pochi minuti dal possente schiavo Coreano che ha trovato in omaggio con la Maserati [pessimo autista, ma buona guardia del corpo]. Così anche stavolta Virgo ordina, e Rufus parte di buon passo fuori dal Palazzo, verso il centro di Castoria. Virgo si affaccia di nuovo per indirizzare il possente gigante, ma tornando a scrutare nota che il misterioso ragazzo è scomparso, inglobato dalla folla. Rufus è spaesato, solleva alcuni giovani passanti scuotendoli in direzione del Palazzo d’Ombra, ma si sente ripetere ogni volta un “NO” sempre più acido. Virgo è disperata, gli ordina di tornare indietro con un McCastor senza cipolla e si rinchiude nella sua stanza con gli occhi già umidi.

Le lacrime accompagnano tutta la giornata, il suo panino al castoro riconferma il fatto che a lei il suddetto animale non piace, e le bevande zuccherate non integrano quel dolce bisogno d’affetto che prima o poi si manifesta, mettendo a nudo le più arcane debolezze e le più efferate perversioni. Una luna velata dalle nuvole fa capolino sul grande palazzo per poi scomparire ugualmente dopo pochi minuti; a volte Virgo si chiede chi è quell’architetto sfigato che ha incassato la sua reggia dentro al monte Fem, ma alla fine pensa che è una tradizione persa nel tempo. I ritratti naif dei suoi avi mostrano intere generazioni di omuncoli e donnicole bianchicci, poco sani nel fisico e nella mente, isolati, ignari del regno che li circonda; nessuno di loro è mai sceso tra le genti di Castoria, ma, come succede per Virgo, i candidati ad accompagnare al trono gli unicogeniti dei vari regnanti vengono selezionati ed estirpati dalla loro Vita precedente, qualunque sia.

Perché, vi chiederete, c’è questo riferimento al fatto che i Re e le Regine hanno sempre un solo figlio? Presto detto: la cosa che piace di più ai Castoriani è senza dubbio il castoro, ma ciò che viene immediatamente dopo è il gettare cose e persone dal vertice della città. Tutte le volte che c’è una disputa gli sfidanti si combattono vicino al vertice della città proteso nel vuoto, cosicché il perdente possa essere comodamente scagliato nel baratro e l’eco della sua caduta si perda nelle valli; ogni volta che una persona muore è il vuoto il suo cimitero; c’è qualcosa di vecchio in casa, tipo la lavastoviglie o la nonna? Nessun problema, il vertice risolve ogni problema. E così, tutte le volte che uno dei regnanti partorisce un figlio oltre il primo, questo viene adagiato in una culla sorretta da un palloncino bucato pieno d’elio, che precipita lentamente verso il basso portandosi con se il piccolo principe mancato; è in onore a questo gesto semi-magnanimo che la valle ai piedi del monte viene chiamata “Valle dei Principi che Forse Non sono Morti e un Giorno si Vendicheranno mooolto Violentemente”.

Ma una volta ancora abbiamo abbandonato la povera Virgo, che vediamo svegliarsi il giorno dopo. Ripetendo i rituali quotidiani gesto per gesto ritorna a fissare la piazza e, prima che possa chiedersi dove sia finito il suo principe straniero, eccolo apparire di nuovo, probabilmente fagocitato dalla bancarella del pesce marcio dove si era inguattato il giorno precedente.

E qui mi si permetta una digressione sul fatto che c’è un motivo valido per cui a Castoria il pesce è marcio: facile, a Castoria non ci sono mari, fiumi o laghi. L’acqua fuoriesce da una stretta fessura nella roccia sopra il Palazzo d’Ombra; da questo viene inglobata e, dopo aver fatto il giro di cannelle, lavabi e latrine, distribuita equamente al resto della cittadina, escrementi compresi; chiaramente non c’è pesce che esca dalla fessura. Il mercante di pesce è un mestiere rituale a Castoria: c’è n’è uno solo per generazione che per giunta muore a 19 anni per intossicazione da spore decomposizionali aeree; il suo unico odorato pescesco gli permette però di accalappiare una delle ignare paesane, con cui consuma tragico amore verso i 15 anni e le fa partorire in circa un mese e mezzo un branzino antropomorfo, cosicché a 4 anni un nuovo mercante di pesce è pronto a sostituire il padre, intrattenere i cittadini e far nascondere bellezze straniere.

Egli [lo straniero, non l’uomo-pesce] rigetta il suo virile ma non troppo malizioso sguardo sul Palazzo, e ancora una volta Virgo cade preda del fascino escastoriano [nel senso che viene da fuori] dell’uomo. Ancora una volta urla al suo gorillautista di prenderlo, e come per un perverso rituale lo straniero scompare ancora. I giorni si susseguono scanditi da una sempre più cocente passione che divora la principessina e un sempre più occulto occultismo del giovane di bella presenza; Il sole sorge e cala senza che Virgo abbia potuto avvicinarlo, senza che ella possa decantare il suo Amore per cotanta sfuggevole bellezza. Ma “se il castoro non va in montagna viene travolto da una frana” - così dice l’antico saggio proverbio inciso sul primo scalino della gradinata che sale al Palazzo d’Ombra. Virgo non conosce niente del mondo che la circonda, ma al momento può sentire solo l’ardente passione consumarla ogni giorno di più, e deve prendere una decisione; così un giorno, dopo aver sedato il Coreano con della castorfina [noto oppiaceo locale] e aver salutato il padre con una mano [tagliata dal Coreano], si appresta a uscire, velata degli abiti meno regali che possiede, un taglier di diamanti placcati uranio e un paio di jeans rosa a puà verdi.

Le vie della città sono popolate dalle facce che ogni giorno Virgo ha visto sudare e sanguinare per assicurarle il suo regale stipendio; da vicino la popolazione di Castoria sembra puzzare parecchio di più. Mascherata da un paio di Castoreyban e un fular di seta sintetica gira tra le bancarelle, incuriosita e affascinata da quel pulsante / puzzante mondo che da sempre le scorre davanti senza fermarsi: c’è l’uomo della verdura che fa anche da sexy shop [il “cetrioli & carote market”], la drogheria del venditore di fumo afgano che sbaglia i risultati delle partite e l’estrazione della tombola, il negozio di gioielli commestibili ma indigesti [fatti con il tipico metallo estratto dalla montagna, il castORO]

, l’artigiano che fa solo armature taglia castoro per i buffi combattimenti della CBFL [Castoria Beavers Fight League] e il mistico pescivendolo. Virgo ritorna alla realtà della sua uscita e si ferma davanti alla bancarella; il pesciaio, già diciottenne e oramai prossimo al decesso, le fa cenno con la testa verso il vertice della città. Virgo osserva.

Stagliato in controluce, fiero della sua giovanità e aitanza sta lo straniero tanto bramato, e guarda verso di lei; Virgo vibra come le carote automatiche del verduraio, ma cerca di non darlo a vedere troppo. Il giovane le sorride, consapevole dell’identità della principessa in incognito e sicuro di aver turbato il regale equilibrio mentale; di rimando Virgo perde un po’ di bolle di saliva dalla bocca e inizia a fremere molto più vistosamente, scossa da convulsioni emotive. Il ragazzo non si cura di queste naturali reazioni corporee e, facendole cenno col capo di seguirlo, scompare nella Scalinata dell’Abisso, l’unico modo per entrare o uscire dalla città: 17 scalini intagliati nella roccia, poi un sentiero scosceso che si disperde tra le rocce aguzze avvolto da cespugli di spine e teschi di castoro nella nebbia densa di terrore [è in questa zona che hanno girato il cult “the Fem Castoro Project”]. Virgo è una principessa, quindi le sue percezioni le comunicano “strada di fiori con inebriante profumo, cielo limpido e tranquillità semi-omosessuale neo-hippy”; può proseguire senza timore.

Scende veloce lungo la scalinata e si inoltra nel sentiero, riuscendo a scorgere solo con la coda dell’occhio il giovane dileguarsi nella macchia di primule odorose / orchidee insanguinate. Il sentiero segue intricati percorsi fatti di etereo perdersi e ritrovarsi, non ci sono che pochi zampettanti animaletti che si dileguano al passaggio dei 2 amanti potenziali. Il Beautiful Stranger distanza Virgo di quel tanto che basta per non far perdere le proprie tracce, ma rimane comunque abbastanza lontano per essere solo una fugace presenza tra il fogliame che va diradandosi vistosamente ad ogni metro, direttamente proporzionale con il crescere della verticalità del monte. In pochi minuti Virgo si trova a tentare di arrestare la sua caduta nel muoversi veloce sulla roccia arida, oramai provata di ogni orpello naturale. Da questa nuova prospettiva nota una particolare fondamentale: Fem non è affatto perfettamente conico: alcune centinaia di metri dinnanzi a lei 2 semisfere schiacciate si erigono sui due lati del sentiero, convergendo su di esso e lasciando solo una piccola strettoia in cui incunearsi. Ed è proprio in questo punto che lo Svettante attende con sguardo d’attesa senza fretta l’illibata trascinata dal flusso feromonico in tripudio primaverile; Virgo cede allo sguardo e si abbandona al suolo, rotolando scomposta verso il suo obiettivo. Ma a nulla valgono i graffi inflitti sulla sua pallida pelle: quando torna ad alzare lo sguardo verso la sua meta antropomorfa di lui non rimane che uno scomparire nella strettoia. La principessa, sgorgando lacrime fisico-emotive si rialza, riprendendo l’ardua camminata.

Il bell’uomo non sembra curarsi dei patimenti inflitti nell’altra, e il suo camminare diventa presto un trotto incalzante e poi un galoppare impavido. Virgo corre, inciampa, perde saliva e sangue e supera lo stretto, notando sulla sommità delle 2 semisfere dei piccoli coni spuntati, come resti di templi profanati dal passaggio del ragazzo. La sua corsa si fa informe ancheggiare zigzagando sul sentiero che oramai è una semplice retta indicazionale della strada che si protrae dritta e scoscesa. Passano un paio di chilometri che la ragazza si trova a dover aggirare un nuovo ostacolo: di fronte a lei si apre una cava, non molto ampia di diametro, ma profonda e densa di misteri che girano attorno a irrecidibili legami. Virgo segue fedele le orme intangibili di colui che sta aprendo la strada di una nuova consapevolezza; la sua testa inizia a farsi leggera, le percezioni sono confuse, le sue ascelle secretano odori instabili e si sente come pervasa di un eccitazione nuova a cui sembra impossibile poter rinunciare. L’inseguimento prosegue, ma un nuovo scenario ci si para di fronte.

Una parte abbondante del monte va verticalizzandosi ulteriormente e seccamente, anzi inclinandosi all’interno del Fem, in un punto dal quale riprende una vegetalizzazione folta e ingarbugliata che segue le pareti scoscese, assecondandone le linee, accarezzandone i contorni e le irregolarità. È attaccato a uno di questi arbusti lianici che sta il travolgente maschio, mentre si accinge a scendere in un piccolo spazio molto in basso, un accogliente lembo di roccia che Virgo scopre non essere altro che l’entrata di una caverna altissima che si apre lungo tutta la parete. È in quest’antro dall’ingresso pluristratificato che si è diretto lo straniero, forse per presentare a Virgo il suo habitat naturale in cui vorrebbe farla vivere. Lei del resto sembra sulla soglia della pazzia, con gocce di sudore freddo che le solcano il corpo e una strana irrefrenabile volontà di proseguire per raggiungere le zone più profonde della grotta, per conoscere i suoi misteriosi abitanti e,soprattutto, per seguire l’amato avvolto in un alone di profumo che ricorda vagamente la bancarella del pesce di Castoria [già così lontana], ma che insomma addosso in lui si pregna di nuove sfumature di piacevole coinvolgimento; è così varca la soglia ed entra.

La grotta è umida, piccoli detriti rocciosi vengono giù con l’idrossigeno liquido, le pareti sembrano quasi morbide, scosse da contrazioni e dilatazioni che rendono l’ambiente circostante vivo e pulsante; Virgo accende il visore a infraverdi in dotazione standard alle principesse di Castoria e inizia a muoversi nell’ambiente circostante, circospetta, con il dito sopra al “detonatore anti-stupratori e fiere feroci” acceso. Un ombra si muove sempre più veloce nello stretto cunicolo che va perdendosi nelle profondità di Fem; non può essere che il suo amato. Virgo saltella veloce da una pietra all’altra, ferendosi le vesti e strappandosi la pelle nel tentativo di stare dietro ai passi incalzanti; corre, scivola, cade, si asciuga dal viscidume in cui ha infilato la faccia, si rialza, riparte, cade di nuovo, stavolta su un cumulo di feci alto 70 centimetri circa, non si perde d’animo, continua. Il passaggio è stretto, ma non difficile da attraversare, e c’è un barlume che sembra provenire da qualche parte in fondo al cunicolo; piccole scintille di luce si rifrangono nelle gocce sulle pareti fino a pungere gli occhi di Virgo, resa cieca però solo dal suo Amore fuggente. Poche decinaia di metri ancora e la stretto sembra allargarsi; è da questo punto che il bagliore si fa più intenso, è li che dev’esserci la risposta alle necessità della principessina.

La prima cosa percepibile all’ingresso, dopo che gli occhi si sono abituati alla tenue luce della sala, è il giovane straniero inghiottito intero dal drago. Poi si nota tutto il drago: un gigantorettile arcano di eccelsa fattura, grigio scuro con le finiture delle scaglie rosso acceso, estensione alare di 12 metri circa, coda lunga e biuncinata, corna zigrinate che fanno un paio di giri su se stesse rivolgendo la punta verso gli osservatori, occhi vitrei in cui brucia la voglia di terrore, odore di zolfo e sangue, fauci spalancate rivolte verso l’alto per inghiottire meglio il ragazzo; dovrebbe essere il modello St.ORM/317 della Castor & Figli SPA, ma al momento Virgo non possiede certezze. Il suo amante che non ha fatto in tempo a diventare tale è finito nella gola di un orripilante mostro che ancora assapora la bellezza inghiottita senza troppi preliminari. Qualcosa ribolle nel corpo della principessa sotto shock, sente che lo stomaco si contrae in spasmi lancinanti e qualcosa le ricorda che un tempo avrebbe già vomitato se non fosse che adesso deve correre. VELOCE.

Se per seguire un potenziale futuro principe di Castoria aveva impegnato tutte le sue risorse di amante, per percorrere la strada al contrario è necessaria una spinta ancora più forte, egregiamente rinvigorita dalla paura. I suoi piedi slittano tra le rocce con la ferma consapevolezza che non è proprio il caso di scivolare: la bestia la sta inseguendo con il lanciafiamme [accessorio di serie incluso nel BasicPACK] impostato su “principidio”, con i suoi possenti muscoli tesi distrugge le rocce intorno, allargando il passaggio che sembra cercare di dilatarsi ma finisce comunque per essere frantumato dalla dolce violenza dell’animale. Ancora pochi metri di sudore sugli occhi, il calore intorno aumenta considerevolmente, schegge di roccia sparate a forte velocità feriscono Virgo, il cui flusso di adrenalina non le permette di sentire nient’altro che la necessità di evadere, volare verso un lido sicuro al di sopra delle nuvole. I vestiti le si strappano, i capelli ondeggianti le coprono la vista, ma non abbastanza da occultare la luce di libertà poco più avanti. Un passo dopo l’altro in una cieca corsa verso un punto che si dilata in verticale e si fa apertura e basta solo uno sforzo di volontà per non far cedere il corpo prima che abbia varcato la salvezza e non serve guardarsi indietro per sentire l’alito infuocato del mostro che avvolge il corpo oramai nudo di un principessa saporita che non vuole fare da spuntino e chissà come sta il pescivendolo di Castoria?

S A L T O O o o o ! ! !

A volte la velocità non può niente contro un drago, ma dove manca la forza il corpo acquista fascino, e come per una volontà più forte di qualsiasi bestia estinta il serpente alato si fa giaciglio per l’atterraggio di Virgo, che piomba sul corpo squamato e li giace, incredula, per alcuni secondi, prima che l’estasi del volo la trascini in alto, sopra ogni percezione possibile. Issandosi a cavalcioni sul collo ruvido vede il mondo farsi solo un ricordo centinaia di metri sotto la sua pelle scossa da brividi di meraviglia; la bestia deve aver perso uno dei suoi appetiti, consapevole del suo carico acquista velocità scagliandosi in morbidi ammassi di spumosa bianchezza, piroettando vorticoso su se stesso, attento che la sua preda si senta rapita ma non perda la presa e rimanga su di lui, condividendo l’alternarsi del volo con il planare dolce in caduta libera verso l’infinito; non più una terra e un cielo, ma un indiscriminato mescolarsi di pazzia acrobatica. Virgo ammira estatica il paesaggio cambiarle attraverso nel mescolarsi dei colori che solo dal cielo possono sembrare così lontani eppure allo stesso tempo vividi, saturi di una gioia amplessica; il corpo di Virgo assorbe le correnti, riesce a percepire il sangue e i muscoli pulsare nel suo destriero, gode il profumo della velocità osservando i suoni farsi echi in rifrazione. Il monte appare nella sua totalità, un cono rovesciato irregolare, teatro di una storia triste quanto piena di ebrezza, Amore e Perdita, Frustrazione e Coito di Sensazioni sulla pelle lambita dal Desiderio di non fermarsi più.

Ma niente è eterno, nemmeno la capacità dei grandi rettili di stare sospesi troppo a lungo; è così che Virgo si ritrova a planare verso Castoria, che sembra così diversa dall’alto, così invecchiata, così schiacciata. Atterrano sul vertice, e basta poco per notare che Castoria non esiste più: Fem ha ceduto, probabilmente la cava è andata troppo in fondo e ha fatto sgretolare le rocce portanti, facendo piegare il monte su se stesso, inglobando completamente la città, compreso e soprattutto il Palazzo d’Ombra; rimangono detriti, macerie, un paio di pesci schizzati fuori dall’urto, un piede di Rufus, veloce ma mai troppo, la videocassetta con il trailer di “Castoro Project 2: the Ghost of Fishseller” e un paio di castorini intimiditi ma integri. Virgo non si sente tanto bene, le gambe vacillano e la mente si piega di fronte al desolante spettacolo; anche il drago comunque è decisamente debilitato: tossisce, sbava, trema; con un colpo di reni finale un ondata di succhi gastrici e pezzi vari si riversa nella parte di piazza rimasta integra.

Ma, stupore delle meraviglie, le sorprese non sono finite: dalla colata di vomito emerge una figura, puzzante, ma ancora viva; lo STRANIERO BELLISSIMO! Virgo dimentica ogni preoccupazione, tutti i sentimenti tristi e corre ad abbracciarlo, rimanendo consapevolmente invischiata nel suo corpo posticcio ma ad ogni modo muscolico e abbronzato. Rapita dall’emozione non vede il drago annuire lentamente, rimpicciolirsi un po’ e volare via, sputando fuori un ultima, flebile fiammata. Le lacrime le scavano vie di fuga nelle guance mentre i castori le rosicchiano una gamba, coinvolti emotivamente dalla situazione e un po’ affamati. Lo straniero la tiene stretta col suo corpo, ma anche con le braccia; passano alcune settimane, poi, staccandosi, la guarda e dice:

- Piacere, mi chiamo Salvatore. Lo sai che l’altro giorno t’avevo vista a palazzo e un’eri per niente brutta. Te come ti chiami? -

Virgo è rapita dalle parole del vero uomo per cui ha patito così tanto, e in un primo momento pensa di non sapere cosa dire dall’emozione. Poi, pensandoci un attimo, capisce che è successo un fatto eccezionale quanto preoccupante. Virgo si è dimenticata il suo nome!

the END

Postfazione

Che patimento! Mado’ per scrivere questa storia quanto c’ho messo! È partita che doveva essere una fiabetta e adesso che è finita mi sembra parecchio meglio dell’Ulisse di Joyce. Chi ha da intendere intenda, ma sappiate che c’ho messo veramente l’anima e il cervello tarato per scrivere sta’ montagna di cazzate. Il finale è un po’ tirato via, probabilmente ci rimetterò le mani quando mi verrà qualche gag simpatica; i concetti comunque sono questi, il modo di scriverli pure. Se siete delusi e sentite di aver perso mezz’ora della vostra vita pensate a me che per scriverla c’ho messe quasi 10 ore! Adesso uscite [dal web, di casa o dai confini dell’Universo conosciuto], andate dalla vostra ragazza e baciatela, se siete donne diventate lesbiche e seguite il precedente procedimento; voi non sapete perché lo fate e lei neanche, ma io sono sicuro che farà bene a entrambi!

Alla fine che cosa rimane di una storia raccontata più o meno bene? Un retrogusto, un flashback evanescente, un fantasma senza catene che ha solo la sua trasparenza per farsi accettare dalla vostra razionalità dilagante. Spero di avervi cullato tra le mie braccia pelose per un po’ e mi auguro che tutti voi, piccoli castorini e castorine, possiate tornare per udire altre mirabili storie e leggende. E poi c’è quel cazzo di drago che è da ore mi gira fuori dalla finestra…

:n°iZ:

AGGRESSiONE

Sono passate le undici, le rocce che pavimentano Siena ribollono facendo evaporare l’antichità della città direttamente nelle mie narici insensibili. Figure del mio presente mi passano accanto, ma sono velato dall’incapacità di percepire i contorni oltre il calore. Saluto, alzo mani in segno di preghiera sul giudizio parziale che va formandosi e mi assimilerà all’eroinomane terminale, anche se questo ennesimo picco di egocentrismo non corrisponde alle realtà, sono solo macchia sullo sfondo di un luogo senza particolari. Da questa massa informe senza significato esce un giovane fantasma, camicia bianca, pantaloni bianchi, scarpe probabilmente bianche, cammina alcuni centimetri da terra e viene verso di me. Il suo volto è la trasposizione aristocratica di un puttino androgino, il suo sorriso una lametta da barba consumata da cui spuntano i peli di una comunque non lontana rasatura; nel pianeta degli odori molesti lui sa di gelsomino, o di quello penso sarebbe l’odore del gelsomino se potessi riavere l’olfatto. Geova è il suo Dio? Vuole che compri la sua fidanzata? Esce ora dalla tossicodipendenza e vuole condividere con me la Gioia? Niente di tutto questo. È un comunista. Dei peggiori, poi: fottuti radical chic ricchioni per diletto, che scenderebbero in un campo di battaglia a condizione che il kalashnikov con cui sparano sia progettato da Dolce&Gabbana, che si vede soffrono ancora dei pregiudizi sull’omosessualità. Questi brulicanti postumi di una civiltà che affonda le sue radici nelle nuvole della teoria astratta mi avvicina e parla, dotato di una dialettica tagliente come lo stracchino; tiene in mano uno spreco d’alberi chiamato “Lotta Comunista”. Io sono stordito, non capisco, voglio camminare con nuovi palazzi che crollano nelle orecchie, scuoto la testa in segno di dissenso ma tolgo una cuffia per attestare che tenterò di subire la sua comunicazione. Il vile miscuglio di denaro e ideali futili mi segue, esponendo l’indipendenza dell’informazione che mi accingerei a leggere se fossi così gentile da investire in quel giornale il mio già evanescente denaro. Ma chi cazzo la vuole leggere 'sta merda? Tradotto per il bastardo: Grazie, ma quando voglio un informazione la ottengo con metodi miei. Impossibile, dice, perché è proprio lui a detenere il monopolio della corretta informazione. Io gli faccio capire che esistono più piani di dati con cui riempire il cervello, e quelli che mi offre [Politica & Finanza] non sono quelli con cui voglio saturarmi. Ma quali argomenti ci sono più importanti, mi chiede ancora? Non capisco cosa succede, ho voglia di piangere e urlare che la sua inebriante bellezza non mi stimola né mi convincerà mai a riempire il mio corpo stremato dell’ennesima retorica di sinistra, che voglio strappargli la pelle della faccia per farne drappo rosso insanguinato con cui pulire il deretano dalle sacre feci che mi stimola, vorrei che la sua pseudolibertinaria indipendenza dal pensiero comune rimanesse rinchiusa nella sua scatola cranica senza tentare di diffondersi o moltiplicarsi. Perché i comunisti adesso mi odiano? E poi sto indossando una camicia nera, perché mi considerano? Perché cercano di vendermi un idea? Io le idee ce le ho, non credo più nei mortali, non sono per la falce e il martello e ancora meno per la fiamma tricolore e non ho valori, ho emozioni, sensazioni a pelle, fantasie erotiche. Muori COMUNISTA!

Detto questo apro la tanica di benzina, gliela lancio addosso, mi accendo la pipa con un cerino che subito dopo contribuisce ad aumentare il calore circostante. Nella mia testa. Nel reale sorrido, socchiudo gli occhi in segno di stanchezza, scuoto l’entità cefalica che tengo sulle spalle, e provo pena; non mi piace la pena come sentimento, sembra di sentirsi superiori a qualcuno che ha bisogno della nostra attenzione. Non voglio provare pena, o tolleranza. Smetto di provare pena e manifesto disgusto, nausea, diarrea, lebbra, cecità momentanea, squilibrio mentale. Il mio angelo custode non richiesto apre le braccia e mi lascia andare, e si chiede ad alta voce come possa essere così stupido; lui usa altre, belle parole, lui stasera scoperà puttane di alto bordo con un cognac sul comodino e il suo cane di razza che gli mordicchia il culo, a lui piace farlo così, sulle coperte di seta appartenute alla nonna ninfomane con ancora il sangue del prozio patriota partigiano che le tinge di rosso.

Il coglione sono io che perdo tempo a parlarne, alzati, vai a bere del succo di mela, inghiotti il risentimento verso un pianeta divertente, orina e liberati dal peccato dei pensieri impuri. Comunque grazie musa improvvisata, grazie per il tempo che mi hai dedicato, per le tue parole, per il tuo culo rosicchiato…

domenica 20 maggio 2007

domenica 22 aprile 2007

Same Story. AG4IN

Vi racconterò la Storia di sempre. E non ve la racconterò neanche in modo diverso. C’è che non ho intenzione di stare a evocare particolari eventi con preciso ordine cronologico; certo, il colpo di scena è alla fine ed è anche l’ultima tra le cose che succedono, a parte le mie riflessioni conclusive, che sono tipo una postfazione che si contrappone al presente momento, in cui vi parlo di ciò che vorrei raccontare, se solo non indugiassi. Perché indugiare? Perché spesso la Solita Storia, di Nuovo, tende a mostrare il protagonista nella sua fragile, solitaria essenza. È la Storia in cui non esistono i Buoni e non vince nessuno, eppure alla fine c’è la percezione che qualcosa sia avvenuto, e che sia comunque possibile perdere. C’è lei, lui, l’altro, gli altri e il loro piccolo Mondo circoscritto, pregno di significati accessibili solo a chi vi guarda attraverso socchiudendo gli occhi e scrutando oltre le vicende, cercando di afferrare il filo conduttore degli eventi, l’improbabile Destino che ci avvinghia e stringe. Parlo in modo criptico? Mi hanno detto che non dovrei, non se voglio diffondere quello che dico; personalmente non ho mai conosciuto qualcuno che ascoltasse i buoni consigli, non ho intenzione di essere il primo. Vorrei non dover fare troppe specifiche tecniche se luoghi e descrizioni. Riempite gli spazi bianchi con i colori che preferite, tracciati i contorni, mettete un po’ di verde negli alberi e del grigio nel cielo. È Primavera, ma non sono io a deciderlo. Quelli attraverso cui osservate sono i miei occhi, ed io sono miope.

Fatevi un primo piano con zoom-out sul volto di Keith. Ascoltate il suono delle risate: avete presente quel genere di Felicità che non infastidisce? Nel suo essere contenta non c’è goffaggine o trivialità, ma neanche pudica ingenuità; si può essere Felici senza dover renderne conto a nessuno. Cammino [forse dovrei usare un coinvolgente “camminiamo” per rendervi tutti un po’ più partecipi, ma io sono la voce narrante, voi lo spettatore] verso un promiscuo gruppo di persone riunite in ordine sparso; niente problemi etnico-ideologici, le differenze di classe non pesano, neanche l’intelligenza. K è con loro, mi nota senza farmelo pesare, e tutti insieme alzano la mano in segno di saluto. Il grigio della giornata non aggredisce, ed io ricambio il saluto. Scienziati e musicisti, critici e nerd, amanti mancati, sotto le stesse nuvole. Lavoriamo per un giornale locale, una specie di rivista omnicomprensiva anarchica pregna del delirante Mondo adolescenziale in invecchiamento: “Echoes” in una parola. Ognuno di noi ha specifiche funzioni che sembra dimenticare ogni volta che c’è da tirare fuori le idee per un altro mese di articoli dinamici e anticipatori di quello che saranno i trend cerebrali in voga nell’immediato futuro. Oggi sono tutti allegri perché nessuno a voglia di menarsela, e sappiamo che la Dea dell’ispirazione è rapida e silenziosa, passa deponendo un piccolo dono di cui solo pochi per volta possono beneficiare; sarebbe l’ora che tornasse a stare da me.

- Signori e altre, diverse dall’uomo, io vi saluto. Prima di scrive’ qualcosa devo trovare materiale, e guarda caso stasera ho un improvvisazione jazz col mio maestro. Se volete venire sono giù al “Paninaro” con gli altri ragazzi; stasera Birra e Würstel a volontà -

A parlare è una voce che quando esce sa che note produce e su quali frequenze. Quello che dovrebbe essere il suo “maestro” non gli insegna più niente da mesi; non è che non abbia più niente da imparare, ma preferiscono farsi ingaggiare da qualche birreria, eseguire una decina di canzoni serie, abbandonare gli strumenti e cantare stornelli sporchi della nostra peggiore tradizione con gli altri nel pub. Dave, si pronuncia “Deiv” con un G# che sale di mezzo tono alla “V”. Soffre di una latente misoginia che non gli permette di rapportarsi in maniera sana con l’altro sesso, anche se risulta alla fine involontariamente affascinante; in fondo è carino e disponibile anche con le creature del suo diniego.

- I miei vestiti hanno bevuto già abbastanza del tuo G.Lemon la volta scorsa; grazie comunque, sarà bello pensarti riverso nel fango all’alba -

Ah, dolce voce senza barriere espressive. K odia non potergli rispondere a tono. Gli sta simpatico, ma non vuole darlo a vedere per non offrirgli tutta questa attenzione. Non chiede di lui quando non c’è ed è l’ultima a voltarsi se è in giro, però alla fine cede ed è quella che più lo sprona. Pholiae lo tollera, fino a quando non lo tollera più. In quel momento lo colpisce forte o gli scaraventa qualcosa lontano, poi lo rimprovera e infine gli sorride, e D con quel sorriso diventa quieto, torna mansueto. Visto che oramai siamo in tema di presentazioni e non sono maleducato vi introduco a TeraByte, occhialuto intellettuale tendenzialmente solitario con tratti schizofrenici, esperto nel bacare i server dei professori che non l’hanno saputo valorizzare nel corso dei suoi Anni Accademici; IsoCore, rivoluzionaria ragazzetta dagli alti ideali, vita sana anche se vegetariana, sesso e droghe, che si accompagnerebbe volentieri a JA, ma costantemente rifiutata dalla sua lentezza alienata; Ordas, contadino civilizzato della WestCoast, appassionato e rotondeggiante fauno naturalista, potenzialmente ma inconsapevolmente innamorato di K; ultimo esemplare Nefasto, cultista del Sabato sera e attivista nelle principali confraternite di conoscenza arcana assoluta, stranamente socievole e molto disponibile a condividere le [poche] grandi Verità che ci sovrastano. Ma torniamo a K.

Nessuno scrive, impara a suonare la chitarra o si droga perché l’ha ordinato il dottore. Se uno scopo nella Vita c’è tutti [tranne D] lo conoscono: accoppiarsi senza riprodursi. Istinto? Probabile. Preferisco chiamarla Ispirazione. A volte non ci credo, ma non è così semplice: non è solo una questione di Sesso, è più come sentire il suo respiro lungo la tua epidermide, tesa a recepire ogni molecola d’aria che possa sfiorarvi entrambi, è sapere che ti precede di un passo mentre tu ti stacchi da terra, è illudersi che nelle sue parole ci sia tu, da qualche parte. Lo scopo quindi è quello di uscire allo scoperto e rivelarsi piano, lasciandoci assorbire dall’altro e facendoci noi stessi spugne per tutto ciò che ci sarà concesso. Il risultato: Delusione. 7 volte su 11, è dimostrato. Ma intanto abbiamo provato, è nessuno si arrende al primo tentativo o si intestardisce sul solito soggetto. Non sempre, ma in questo caso, Si. Alle Elementari lo chiamavamo “Amichetti del Cuore” - alle Medie “Cotta” - alle Superiori “Te la Vuoi Scopare” - all’Università “Relazione” o “Aperitivo”. Adesso si chiama K, almeno per me. È un Ossessione che ti annebbia il cervello, e rischi di mandare ‘affanculo [quest’espressione la devo usare per contratto] tutto prima che la tua Illusione si muti in Delusione e poi in Conclusione.

- Hey… Signor Distante? Hai deciso che non facciamo più parte del tuo Pianeta e adesso ci ignori per dimostrarci superiorità. Vile tiranno colonizzatore capitalista, vedi di tornare e darci un idea per un bel tema da seguire per questo mese. Ti ricordo che “Suicidio”, “Apocalisse” e “Orsetti Rosa” li abbiamo già usati, quindi inventati qualcosa di buffo. Veloce. - IC, chiarissima.

- Ma è chiaro… questo mese parleremo di “Illusione”. Trova qualcosa tra i tuoi archivi reazionari riguardante gli ideali più o meno compiuti dei tuoi eroi. O, tu devi farmi una ricerca su Piante Allucinatorie e procurarmene un paio, JA a te scoprire chi soffre nel nostro schifoso borgo di Depressioni e Crisi e perché. N, a te la ricerca del fondamento delle nostre Paure inconsce e la visualizzazione di tali spettri: casi DOCUMENTATI, ok? P, belle fotografie, tempi d’esposizione lunghi, luci strane: riporta in Vita qualcosa di sopito. K… mi fido di te, portami una Storia delle tue, un bel classico introspettivo, hai carta bianca. - Sguardi stupiti su di me, che faccio da mentore e Compositore Esecutivo.

- Beh, che ne dite? Mi sembra un bel tema… - Quando parlo sono convinto di ciò che dico. Di solito il problema più grosso è convincere gli altri. Ma stavolta è diverso. Ho fatto presa, una tacca in più nella stretta colonna dei successi.

Devo aver sbagliato qualcosa perché mi ritrovo invischiato nella narrazione di un fatto, e mi ero proposto di non essere così specifico e situazionista. C’è da dire che il dialogo di solito tiene viva l’attenzione, così che da adesso ho ancora mezza pagina di riflessioni da proporre prima che mi chiudiate nella cartella dei file da dimenticare. Penso che a volte manco te l’aspetti che le cose prendano una piega così inaspettata. Fino a un anno fa eravamo semi-sconosciuti riconosciuti dagli sguardi attraverso le aule affollate, oppure a mensa, per strada. Un volto, piacevole agli occhi e inarrivabile perché lontano dai progetti quotidiani, un “Se” tra gli “Adesso Devo” e i “Sono in Ritardo”. Di solito un individuo mediamente stressato è troppo occupato per occuparsi di come sarebbe il resto della sua Esistenza SE ti conoscesse. Poi un giorno P ti porta nella nostra sala controllo e ti riconosco consapevole che mi riconosci nel nostro non conoscerci, e poi ti presenti. K. Il tuo nome non rievoca nulla se non una passeggiata in un momento non preciso, eppure ti sei appena scavata un posto nella memoria dove stare per il Futuro prossimo. Sei stata accolta quando ci siamo accolti tutti a vicenda; non c’era ancora niente quando 8 maggots di periferia si sono incontrati tutti assieme per una volta pensando che sarebbe potuto succedere di nuovo e che forse potevamo anche darci una mano e costruire qualcosa di “nostro” [è veramente strano fare discorsi pseudo-nostalgici su cosa mai avvenute -NdA-]. È così ti abbiamo conosciuta; per un momento è decisamente poco importante che gli altri ti conoscano: io ti conosco e vorrei poterti conoscere ancora. Cos’è che ha fatto scattare l’interesse che mi ha condotto fin qua di fronte per scrivere cos’è che non va, proprio non va? Il modo in cui ti sei mossa nello spazio che avevi occupato in me: delicata ma decisa, con una passione che brucia senza che tu ne lasci trapelare i barlumi, semplice e spontanea, come mi hanno detto che non riesco ad essere [maledettamente artificioso], simpatica. Che non stona in mezzo a tutta questa sublimata descrizione. Tronchiamo la Poesia, mi s’è spappolato il cervello e collassato il fegato, e adesso ti guardo e resto immobile e sembro più scemo del necessario. Non ne ho parlato con nessuno tranne che per fugaci accenni translucidi in momenti di Follia controllata, e siccome all’incirca ho usato questi termini nessuno ha capito [tranne D] cos’era che mi turbava. Io e O ti contendiamo senza dircelo [lui manco lo sa di essere attratto, è il fauno in lui a fargli emettere strani rantolii quando ti vede] e sembra che tu non lo noti nemmeno. Per voler essere precisi e sinceri, non è che “sembra”: secondo me non te lo immagini minimamente il movimento di cuori e stomaci che c’è al tuo passaggio. Non penso tu sia abituata ad avere ammiratori segreti che collassano alle tue spalle a corto di fiato; vivi il tuo essere ragazza come approssimazione, senza esaltare ma meno che mai sminuendo, con piccoli particolari che ne tralasciano altri in una distratta imperfezione che si avvicina ad una Bellezza ideale.

Cercare di farmi avanti potrebbe essere una soluzione alla mia sensazione di stallo, nonché un compimento, un momento decisivo in cui tramutare il nostro viverci paralleli? Sarebbe troppo facile, scontato. Desidero prenderti alla sprovvista, lasciare rispondere alla tua espressione sopra al fiato mozzato, interpretare il tuo silenzio. Ho imparato a osservarti ogni volta che sei di spalle, per una volte potrei incrociare il tuo sguardo nel mio e restituirtelo mutato. La Fantasia è la consolazione e ciò che più mi blocca: idealizzare la nostra eventuale relazione, dal suo principio fino alla conclusione, fa evaporare le nuvole, eppure riesce a piovere lo stesso, perché infine la “Situazione Ideale” non si presenta mai, e io mangio le unghie mie e degli altri, pensando a quanti attimi fuggenti non colti sono già passati.

Quando mi sveglio di nuovo sono da solo in mezzo alla strada. Una serie di Flashback mi riportano alla mente che tutti gli altri se ne sono andati annuendo allegri alla mia ispirazione mensile. Io ho sorriso salutando e agitato le mani, ma dov’ero in quel momento? K, che frase banale avrò usato questa volta per congedarci? Dovrei essere più presente e meno Strim of Consciusness, ma le digressioni sono fondamentali per dare al lettore una panoramica generale dell’argomento trattato che va piano delineandosi. Mi giro e torno sui miei passi disorientato, quando il mio nome urlato non troppo forte riempie l’aria circostante.

- Dove te ne vai? Ti avevo detto che andavo a prendere un caffé e hai annuito, ma sembravi in trance. Stai bene? …caffé? - Mi guarda sorpresa, colta alla sprovvista senza essere offesa. Io annuisco e vorrei tornare nel mio cervello per estirpare a mano tutti i momenti in cui do prova inequivocabile della mia alienazione. K mi tende il suo bicchiere di plastica cancerogena semivuoto. Io annuisco ma dal modo in cui lo faccio lei capisce che sto rifiutando.

Mi chiedo spesso a cosa pensi quando mi guarda interrogativa, sorridendomi affatto imbarazzata. Al momento non me ne curo troppo; se sono stato capace di farci rimanere insieme in un momento di totale annullamento sto facendo progressi. Facciamo qualche passo in silenzio diretti verso nessuna direzione; lei sorseggia il caffé bollente che scioglie le orribili sostanze del bicchiere, nessuno dei 2 sente il bisogno di dire una cazzata, per adesso. Ci passano accanto un paio di ragazzi anche loro silenziosi visibilmente affaccendati, visibilmente fidanzati; in questi momenti sembra si crei la necessità di distinguersi nettamente da queste forme di Vita demoralizzata.

- Ma non lo sai che la plastica è cancerogena e il caffé delle macchinette lo fanno con la farina ossea… - uno ci prova ad essere simpatico, ma il compito è arduo.

Lei mi guarda e tende nuovamente il bicchiere; lo prendo e sorseggio lentamente, assaporando ciò che rimane delle sue labbra sul bordo, poi glielo restituisco e fingo di morire su una delle panchine che accompagna il nostro camminare. Credo che nel fare ciò mi esca accidentalmente della saliva da un angolo della bocca [alle volte il mancato attore in me fa una comparsata per rendermi ridicolo]; non credo se ne sia accorta, perché mi si siede accanto per nulla disgustata dalla mia idiozia e mi chiede se quello che non va nel mio cervello e anche ciò che mi fa venire delle belle idee per il giornale; annuisco esaltandomi segretamente per il soffuso complimento. La temperatura esteriore è di circa 21°C, quella dentro di me invece sta aumentando, segno inconfondibile della propagazione emotiva e dell’imminente vergognoso copioso sudare, e conseguente odorazione. Guardo dei fabbricati in costruzione e penso che alla fine deturpare il territorio non è una cosa così terribile se lo sfasciamento si contiene all’interno del centro urbano; nella mia filosofia i beni storici che dovrebbero essere protetti sono i boschi, le cascate e gli animali di tutte le taglie che si sottopongono al mio obbiettivo. Divagando cerco un argomento.

- Te piuttosto, hai già in mente qualcosa su cui scrivere? - E vai: dimostrazione di interesse e passaparola.

- L’Illusione è un bel tema su cui cimentarsi, penso che mi prenderò un po’ di tempo nei prossimi giorni standomene a casa a sorseggiare the, aspettando, osservando i confini del mondo percettibile squagliarsi e rivelare quello che c’è e che non si può vedere se non si è me -

- Bello, FantaPsichedelia! Ci metti anche dei mostri giganti che sputano veleno? - Il mio intento buffonesco rischia di scadere nella stupida non voluta provocazione; un Dio sconosciuto ha fatto si che la sua attenzione fosse rivolta altrove, verso due cipressi particolarmente infelici: il primo è drittissimo e sottile, di bellezza classica; il secondo deve aver sofferto per una crisi di identità davanti al compare, poiché dai loro tronchi che praticamente si toccano si piega in una concavità che va allontanandosi per poi ritornare indietro fino a toccare con la punta il primo. Non so se mi sono spiegato, comunque K è distratta, vaga un po’ alla ricerca di un senso nella Natura e poi, tornando indietro, si volta verso di me: questo è il suo modo d’essere che mi fa impazzire.

- Certo, sicuro… te invece cosa farai in queste serate? Andate da qualche parte con D? Ogni tanto dovremmo organizzare un pranzetto redazionale con vino pomeridiano a 4°C e salatini, e vedere chi gattina per primo -

- Organizzazione… tempo che manca… cercare di dormire e il mattino dopo cercare di svegliarsi… dedicarsi all’emancipazione di se stessi… inseguire i sogni. Se ci impegniamo però potremmo anche farcela -

- A proposito di tempo che manca… avevo detto alla mia coinquilina che andavamo insieme a fare la spesa. Me ne ero completamente dimenticata. Che ore sono… le quarteunquar… ce la faccio a raggiungerla al Supermercato se mi sbrigo. Scusa, la finiamo uno di questi giorni la chiacchierata. CIAO! - e così scappa via. Si alza una brezza leggera e piacevole mentre scompare dietro a un palazzo. Io guardo nella stessa direzione e alzo la mano per salutarla, ma l’unica reazione che suscito e l’ilarità dei 2 tipi di prima che stanno ripassando in direzione opposta; che bello avergli migliorato la giornata. Non credo che finiremo nessuna chiacchierata, io non ho il numero del suo cellulare e mi vergogno troppo di mandarle una mail intitolata “allora, per quella chiacchierata?”. Meglio andare a sentire D e affogare i dispiaceri per stasera.

Le ore passano inesorabili senza che combini niente; faccio una passeggiata intorno casa, do un occhiata a un libro di un poeta mezzo maledetto e sconosciuto, faccio uno spuntino pistacchi e latte, penso, scrivicchio, divago. È passato molto tempo dall’ultima Sbornia Emotiva, non sono più abituato a questa sensazione di dispersione mentale che fortunatamente permette di riposare il cervello e lo drena dal superfluo [cioè tutto il resto]. Era stata una ragazza due anni più piccola di me, in TerzaSuperiore, a destare le mie Sensazioni di adolescente imbranato; imbranato perché sono riuscito al massimo a farla impaurire, avrà pensato che ero uno psicopatico morboso e ninfomane [e in fondo poteva non avere tutti i torti]. Le mie storie dispersive hanno riempito gli anni ma non il cuore [e infine, dopo migliaia di parole scritte invano, anche io ho finalmente e consapevolmente ho scritto “cuore” per intendere una lunga schiera di Sentimenti Positivi… Evviva l’Amore] di esperienze vissute arrampicandomi sugli specchi, illudendosi che ciò che desideravo lo avevo già, togliendomi Energia. Adesso che mi ricordo cosa succede a vederla capisco perché non si può essere innamorati a costrizione. Ma torniamo a D.

Il tempo passa secondo i miei canoni, e adesso io e N siamo al “Paninaro” a scapellare [lui più di me] per il blues-man che sta già eseguendo una versione a’cappella di “House of the Rising SUN”.

- Der is aaus in niù orlins… dei colli offde raisin Zan… - e agitiamo i boccali scandendo le strofe con la schiuma della birra che si deposita sui jeans e si assorbe lentamente. È passata anche O a salutare per darci degli sfigati cronici e scroccare un sorso di birra.

- Ah, che triste è la Vita: io sono perso… PERSO. E lei sembra non volerlo capire… - Guardo il boccale, ma il mio interlocutore è N, che pazientemente cerca un modo di tirarmi su di morale anche se io non sono poi così triste; in fondo sono con gli amici e la birra a sentire canzoni stonate.

- Ma te gliel’hai detto? - E la risposta la sappiamo e tanto vale ordinare un altro boccale e unirci ai cori. Non è molto che conosco N, e comunque finora non l’ho mai visto con una ragazza; c’è che è timido peggio di me, e mentre io di Passioni e Dolori faccio un comizio continuo, lui è un po’ schivo. Colpa della Conoscenza e delle Sette… delle Otto, non saprei di preciso. Vorrei non dover essere io a pesargli addosso, ma condividere la sfigataggine dei post-20’s.

- Dove l’hai messa la stinfia? Anche stasera non si tromba, eh? - “Aus of deRaisin San” è finita. D infierisce, e non mi dispiace. In realtà è un modo per darmi forza, o almeno io lo recepisco come tale.

- Io no di sicuro, ma te ugule! - E tutti insieme alziamo i boccali brindando forte.

Forse un giorno allungherò la Storia o le darò un’altra Conclusione, ma adesso è tardi e la voglio finire, quindi passiamo alla L4ST-SCEN3. Ciak! Azione.

Oggi è il giorno dopo. Mi sveglio con la bocca arsa e amara, ma piuttosto soddisfatto; peccato che le Profezie di D si siano avverate. Oggi non ci sarà veramente nessuno in giro, e io stesso non ho molta voglia di socializzare; mi piace dopo una sbornia allegra avere un giorno per riprendermi silenziosamente, lentamente con i miei tempi molto dilatati. Sono lento ma non me ne sono mai fatto una colpa, sento che il mio bioritmo è piuttosto fragile e non devo sforzarlo troppo. Il mattino è inesistente, il pranzo consistente, il pomeriggio deprimente, la foto di un serpente, la cena vagamente, la sera rapidamente esco di casa e vado verso città. Stasera c’è una forza sconosciuta che mi traina verso un piccolo appartato parchetto dall’altra parte della città; la notte è fresca senza essere troppo pungente, le stelle scompaiono sopra i lampioni, la Luna sorride, e io penso a K. Probabilmente sarà assorta nel suo vagare onirico a occhi aperti, e non ci sarò io dalla parte opposta dei suoi pensieri. Camminando scandisco il tempo dettato dal lettore Mp3 sintonizzato su una Lali Puna elettricamente docile; mi lascio cullare, mentre le occhiaie del post-sbronza iniziano a scomparire facendosi però molto più pesanti. Canticchio, alzo la voce nell’incontrare sconosciuti, preso da sprazzi di mania di protagonismo che mi permettono di disinteressarmi a ciò che potrebbero dirsi, facendo si che per un attimo la loro distrazione si focalizzi sul mio egocentrismo latente. Accenno qualche passo di danza del ventre [di per se la frase non sta in piedi] ma la buzzetta alcolica che ho così arduamente conquistato con gli anni mi fa sembrare una pera che circumnaviga il suo baricentro. Sono sempre innamorato e i pensieri fanno avanti e indietro senza meta lungo le sinapsi inebriate; questo è il genere di sensazione che solo una notte ti può regalare, una notte in cui per un momento posso anche permettermi l’illusione che anche lei mi stia pensando e le nostre immagini surreali possano riunirsi in un Altroverso solo nostro. Il parco si intravede nel fogliame dei cespugli diradati dall’incuria del Tempo. Non sarebbe male essere qua con lei, anche stando zitti per gioire della reciproca vicinanza. Nonostante lei non usi profumi c’è il suo odore nell’aria, esattamente dove voglio sentirlo con le mie narici tappate dal perenne raffreddore. Un passo sulla ghiaia e sono dentro.

Il buio è semiprofondo, i lampioni si succedono distanti abbastanza l’uno dall’altro per lasciare piccole zone d’ombra in cui poter scomparire fino al Mattino. Il silenzio è interrotto a tratti da echi che si perdono con facilità, rendendo incomprensibile il suono di provenienza. A prima vista direi che non c’è veramente nessuno, ma la strada ghiaica percorre a zig-zag, e sono frequenti i cespugli alti e le panchine in disparte illuminate fioche da alcune luci nel terreno. Mi piace, in questa apparente solitudine non ci sono ladri o stupratori o spacciatori, solo falene e pipistrelli, un quieto benessere difficile da incrinare. Mi tolgo una cuffia e procedo a non più di 90 BPM, scandendo bene i passi, affondando nei sassolini, facendo vagare lo sguardo. Gli occhi scrutano l’oscurità e noto che non sono solo, ma ho fatto comunque un incontro fortunato [non COSÌ fortunato, che credete?]. D se ne sta immobile a guardare il cielo davanti a me su una panchina a un cinquanta metri di distanza, sembra piuttosto contento; c’è un cespuglio che mi nasconde parzialmente la vista, così esco dalla stradina e vado sull’erba per raggiungerlo. I miei passi diventano un danza silenziosa sui fili d’erba, se sono bravo riesco anche a fargli Paura. Mi avvicino cambiando prospettiva e noto che stasera dovrò rinunciare alla compagnia [ma non allo scherzone]: c’è una testa appoggiata sulla sua spalla, e non sembra volersi scollare. E bravo il Blues-Lover, lo vedi che a volte anche senza impegnarsi si raccatta! Chissà chi è e da quant’è che il nostro cantante ubriacone ci tiene nascosta una relazione. Altri passi, altre consapevolezze: i capelli di lei sono castani e lisci, tenuti mediamente bene; gli tiene una mano oltre la spalla, e ha un bella maglietta a maniche lunghe, Nera. Con i polsini più larghi e una fascia rossa all’altezza del gomito. Io la conosco quella maglia; nell’aria c’è l’odore di prima. Un altro passo, uno solo.

D si gira e lei lo guarda. Poi si baciano. Lei ha un neo piccolo piccolo sulla guancia sinistra; io da questa distanza non posso vederlo, ma so che c’è, perché so chi è che fa parte di questo Bacio. C’è K oltre il loro unirsi. Ci sono K e D che formano un'unica entità davanti a me. K e D. Un altro passo.

Chi ha letto qualcuna delle mie storie si aspetta che a questo punto il nostro protagonista mette un passo dopo l’altro e correndo si avventa sui 2, dilaniandoli a morsi per poi scomparire nella notte senza mai più fare ritorno nel mondo della Luce. Eppure, per una volta, non va così.

Dopo un buon minuto e mezzo di apnea si staccano e lei lo guarda, rapita. A lui sembra fregare il giusto, ma perlomeno sembra un po’ coinvolto. Non sento più gli strani rumori; rimango immobile mentre loro ripetono l’operazione altre volte, completamente noncuranti del Mondo circostante. Il motivo mi sembra valido. Chiudo gli occhi. Evito le scene di corsa folle in lacrime, troppo cinematografico. Però mi volto, perché devo andarmene e non voglio camminare all’indietro. Non ci sono pensieri, solo una costante sensazione di disagio, e c’è un solo posto che può lenirla. Riapro gli occhi e cammino, con costanza, rimettendomi la cuffia e tornando a marcare ogni passo, ripetendo ogni strofa, guardando vago il Pianeta. Non c’è nessuno tra me e il ponte.

Niente suicidio, anche perché non è così alto da concedermi la Morte. È il mio luogo di annullamento, dove nessuna mi chiede un motivo per esistere; meglio così, non ne avrei. Passano le macchine sotto di me e so di essere sospeso sul resto del Mondo, senza fine apparente il mio esitare statico. Vorrei poter parlare attraverso i pensieri, ma non ne ho, non ne voglio. La mia generazione soffoca ciò che è sbagliato, quello che non ha motivo d’essere; c’è chi la chiama Illusione. Passano le ore negli orologi di chi deve rispettare il tempo mentre osservo le luci scomparire tra le mie palpebre. K è nel buio dei miei occhi sigillati.

K.


:nOis3.g4te:
22 Aprile 2007