giovedì 27 novembre 2008

il GIOCO dell'ATTESA


CHICAGO 22:57

- Vedi, il jazz è come quando ti cade troppo peperoncino nel sugo il giorno che scopri che ti piace mangiare piccante. Però il giorno dopo quasi sempre ti vengono le emorroidi.
- A me non piace mangiare piccante, e quand’è che iniziano a cantare?
- Ma non senti che voce? Direttamente dalla gola di ottone.
- Non conosco questo cantante, e giuro comunque che non riesco proprio a sentirlo.
Duke sorride e scuote la testa, smette di giocare con lo zippo e tira fuori una sigaretta che stava nuotando nella tasca della sua camicia. Mentre accende inspira forte, adora il retrogusto del petrolio in gola. Bud si alza, prende la sigaretta, fa un tiro e la spegne nel boccale di Duke, vuoto.
- La conosco già la storia dell’atmosfera, del mood un po’ noir, ma non mi va che mi intossichi la stanza, stanotte pensavo di dormire in zona e non ho intenzione di sviluppare un cancro da amicizie tossica.
- Potevi anche dirmelo prima.
- Mi andava un tiro della tua sigaretta.
Duke e Bud passano le serate affogandosi di birra di scarsa qualità travasata nei boccali presi in prestito ai pub della gita delle superiori in Germania; poi un po’ di musica, ed è facile sentire alternarsi cool jazz e death metal. Stasera la playlist tocca a Duke, anche se sono a casa di Bud.
- Bud, a proposito: com’è andata con la metallara del secondo anno?
- Siamo usciti insieme sabato sera; sai, usciti nel senso di baciati. Ha detto che sapevo di vomito…
- Davvero?! Che maleducata…
- Mica tanto, avevo appena partorito dall’esofago una creatura perfettamente equilibrato tra lo stato solido e quello liquido; sfumature violacee, retrogusto leggermente acidulo, da intenditori.
- Quindi anche stavolta niente da fare.
- Che dici? Le è piaciuto tantissimo, siamo stati attaccati tutta la sera!
Ridono di gusto. Mentre riprendono il controllo delle contrazioni facciali Duke si guarda in giro, la stanza di Bud lo affascina: è arredata come se dovesse morire da un momento all’altro. Tende nere, pareti rosse, un mobile di legno tarlato pronto ad inghiottirsi le tre felpe nere e i tre pantaloni neri comprati in serie, una scrivania in cui sembra non siano mai passati fogli, le uniche scritte sul piano da lavoro sono state intagliate con cura nelle lunghe nottate a base di Dimmu Borgir. Quello che gli piace di più però è il disegno di Cristina d’Avena sodomizzata da Haidi con uno strap-on; lo ha disegnato un loro vecchio compagno di classe il giorno prima di buttarsi dal tetto della scuola nel cortile asfaltato. Il problema è che non aveva considerato il fatto che l’edificio era costruito su un solo piano, l’altezza era giusta per farsi abbastanza male, ma troppo poca per uccidersi; l’hanno soprannominato “lo svelto”, a volte vanno a trovarlo a casa, nel letto in cui è immobilizzato da tre anni.
- A cosa pensi? Ti sei ingrigito.
- Pensavo al senso dell’umorismo di Dio. Dì, ma tu ci credi?
- Se c’è mi deve un gatto. Maledizione, devo ancora farla pagare a Dixie, quello skin del cazzo! E pensa che ancora non ho trovato l’altra metà di Artie, povero micino…
- Non ci pensare, è che Dixie non aveva più niente in casa da mangiare. No, davvero: Dio! Senti come suona bene. Se fossi Dio me ne starei tutto il giorno ad ascoltare Chet Baker, e chissenefrega del resto dell’universo. Secondo me in questo momento Dio e il vecchio Chet stanno facendo un duo lentissimo, il Signore ha chiesto un paio di lampade rosse al cugino in basso, per l’atmosfera, se ne sono andati nel versante buio dello spazio e adesso se la godono che tu ed io non ce lo immaginiamo neanche, altro che masturbazione e soffocamento insieme. Sennò come la spieghi le guerre in Medio Oriente?
- Che vuol dire?
- Hai mai provato a guardare i filmati degli scontri a fuoco con “You don’t know what love is” in sottofondo? Da paura…
- Tu sei malato! Scommeto che a guardare rotten ti ecciti.
- Su rotten dot com ci va “Don’t explain”, e dopo come fai a non eccitarti?
Bud non capisce davvero come fa Duke ad ascoltare questa roba. Un paio d’anni prima se ne andavano insieme a vedere i Festering Disgust, e ora lo guarda starsene seduto in poltrona, con le sue camicie leggermente ingiallite, il bicchiere di rosso in mano a sfogliare libri incomprensibili, ascoltando jazz. Oddio, e poi la sua stanza: è arredata come se dovesse morire da un momento all’altro! Di un colore strano, quasi blu, non c’è niente tranne i libri e i vinili, una decina di bottiglie piene e altrettante vuote, il letto e un cassettone poggiato a terra in cui stanno ordinatamente ammucchiati i vestiti. La filosofia di Duke: “se dovessi morire non voglio mica che i miei perdano tempo a svuotare camera mia, pensa come dev’essere tetro stare nella stanza di un morto!” Per fortuna che almeno il gusto del macabro gli è rimasto.

23:23

Bud si strofina un braccio, sembra nervoso; Duke lo guarda con un sorriso un po’ ebete.
- Bud, sei pronto?
- Iniziamo già?
- Beh, non saprei, l’ultima volta hai scritto cinque righe.
- Non mi piaceva il tema.
- Bene, oggi tocca a te sceglierlo.
- Io direi che è il caso di farne uno classico. Che ne dici di “Cosa avrei voluto fare e non ho fatto in tempo?”
- Ci sto!
- Pronto allora? Iniziamo.
- No, aspetta, hai soldi nel cellulare?
- Oh mer…
- Bud! Qua c’è il mio, ok?
- Perfetto. Iniziamo?
- Sei indietro di tre parole…

23:24 BUD

La pagina di Bud, macchiata della sua orrida calligrafia, recita all’incirca così:
“Pochi anni fa era tutto più semplice, sembrava di avere tutto il tempo che volevamo a disposizione, eppure non l’abbiamo mai perso; oggi sembra di vivere per abitudine, per una tradizione culturalmente valida, tipo mangiarsi le ostie o perdere alla lotteria. È strano, ho visto cose che mio padre neanche nei suoi peggiori incubi potrebbe concepire, eppure mi sento già stanco, tediato nell’osservare, straziato dal non sentirmi osservato, impaurito dall’anonimato almeno quanto detesti l’idea di essere qualcuno in un mondo che non mi somiglia affatto. Le menti migliori della mia generazione non si trascinano per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, all’alba dormono nei loro letti caldi con la fidanzate innamorate accanto, svegliandosi trovano la colazione fatta, i vestiti piegati e uscendo di casa, guardandosi in giro, si convinceranno che non c’è niente da fare se non imitando qualcun’altro. Non sono sicuro poi che le menti migliori siano poi così migliori; ma sto divagando. Con più tempo a disposizione sarei voluto scendere in strada con un kalashnikov. Anzi no, una magnum. Anzi no, una mazza da baseball chiodata, meno vittime, ma molto più vissute. Fracassare teste in ordine casuale, anche se sicuramente avrei trovato il tempo di togliermi un paio di soddisfazioni tra cui: l’ausiliare del traffico, che aspetta lo scatto dell’ora accanto alla mia macchina per vincere il record di multe fatte allo stesso coglione in una settimana – il proprietario della BMW parcheggiata accanto alla mia Panda che saluta gioviale l’ausiliario mentre mi fa la multa, il cui biglietto sul cruscotto è scaduto nel cretaceo – il tossico all’angolo che ha rigato la BMW solo per invidia, perché lui non ha avuto manco le palle per cercare di essere ricco – il fottuto studente universitario che gira in bicicletta giudicando chiunque entri nel suo campo visivo. Dopo il mio piccolo massacro vorrei iniziare a correre e smettere solo in caso di arresto. Della polizia o cardiaco poco importa. Correre, veloce e più lontano possibile, per fuggire da tutte le immagini che mi sono costruito attorno, per non dover più dimostrare nulla a me stesso nè al resto del mondo, correre senza pensare chi sono stato e chi avrei voluto essere. Avrei anche voluto sentire il prossimo CD degli Impaled Nazarene, ma non penso sarebbe stato così diverso dagli altri. Effettivamente mi sarebbe piaciuto anche…”
Bud sente un tonfo, alza lo sguardo.

23:24 DUKE

Sul foglio di Duke le parole sono più o meno queste:
“Sono sempre stato un bambino carino e gentile, non ho mai ucciso animaletti per sfizio e le maestre mi carezzavano amorevolmente quando facevo bene i compiti. Quindi non c’è motivo apparente per cui dovrei odiare il mondo; guarda caso invece il sentimento è proprio questo. Disgusto, per le creature brulicanti che infettano il pianeta senza pietà e rispetto, limitandosi a vicenda. Se non ci fossero tutti questi problemi con la legge avrei fatto volentieri il serial killer, e penso me la sarei cavata piuttosto bene; parlando concretamente, penso che se avessi avuto più tempo a disposizione avrei tentato di innamorarmi davvero. Finora le storie che ho avuto mi hanno procurato più che altro delle fortissime emicranie, penso la sensazione più intensa che abbia provato sia stato quando quell’oca di Sarah, inciampando sul cassettone, mi ha rovesciato addosso la teiera appena tolta dal fuoco. Cazzo, non c’è niente in camera mia, pensavo che il cassettone si vedesse bene, ma a Sarah piaceva guardare in alto, diceva che le evitava la formazione delle rughe sul collo. Tornando al tema principale: innamorarsi dev’essere liberatorio, un po’ come urlare dopo essere stato dal notaio, ma più piacevole, come spezzare le zampe di un gattino, fargli ingoiare a forza un Alcatel One Touch C635 aperto e pubblicare il filmato su una chat per dodicenni, intitolandolo: “BRICIOLA”. È vero che non mi sono mai impegnato, è che sono così giovane e credevo fosse giusto esserlo senza impegnarsi troppo. Già il passaggio dal metal al jazz non è stato semplice, e quasi perdevo il buon Bud; mi chiedo perché le nostre scelte debbano sempre far soffrire qualcuno che si è affezionato alla stereotipata immagine di noi, come se per volersi bene bisognasse firmare un contratto di immobilità reciproca. Forse avrei solo voluto indossare maschere migliori, pensieri leggeri, sorrisi plastici, si dice che a volte simulare l’orgasmo aiuti a raggiungerlo, quindi perché lo stesso principio non dovrebbe poter essere applicato anche al buonumore? Perché finché non raggiungi il tuo obiettivo stai mentendo. E poi chi l’ha detto che dobbiamo essere felici? E poi chi l’ha detto che non dobbiamo mentire? Qualcuno deve avercelo insegnato, ma penso fosse una bugia…”
La penna in mano a Duke cade, prima sul foglio, poi rotola a terra, e Duke la segue.

23:32

- Hey Duke! Allora stavolta ho vinto... per fortuna, credevo di non farcela più. Aspetta che chiamo. Ecco… sta squillando… non ti preoccupare, tu stai lì buono che al resto penso io… cerca di non sporcare per terra, mia madre ci ha messo una settimana a mandare via le macchie l’ultima volta… SI! Ciao, buonasera, sei Shirley? No, ELLA! Ciao Lady, sono Bud, ti ricordi di me? Era tanto che non ci sentivamo. E dai non iniziare con il solito “ancora, ma perchè, eccetera…” lo sai che ci piace, ci potete dare mille farmaci, non li prendiamo, io ho degli amici tossici che vanno pazzi per le benzodiazepine, uno mi ha pure regalato il suo abbonamento annuale a Topolino; che vuoi, ha 13 anni, se non inizi presto poi vedi i tuoi compagni strafatti e sei fuori dal gruppo. Seee, non è mica così semplice, ci dovete trovare. Che dici tu? Casa mia a La Grange o casa di Duke a Northbrook? Dovete indovinare, conta che è già passata quasi un’ora e anch’io non mi sento particolarmente in forma. Chi ce lo fa fare? Nessuno, e tu non sei costretta a stare a sentirci, puoi riattaccare se vuoi, io chiamo perché mi piace ascoltare la tua voce; mi piace immaginarti con il camice bianco, adesso stravolta per noi due poveri imbecilli, ma tanto domani ti sarai già dimenticata, tornando a casa dal tuo bel marito comprerai il dessert per ingozzarvi dopocena insieme ai bambini. Già, come stanno? Bene, no… con due genitori come voi, che gli manca? Da una parte vi invidio, dall’altra vi odio, insomma non è che proprio mi piacciate, però vi ammiro anche, io non ce la farei. È perché sono viziato, forse perché sono deluso, forse perché nell’ascoltarti mi sento un po’ un amante segreto che ti confida il suo più intimo, forse ultimo, barlume di presente. Beh, adesso devo proprio andare, buon divertimento, comunque vada…”
Bud non attacca, non ne ha la forza, si accascia sul letto ascoltando l’eco delle ambulanze in partenza filtrate dalla linea telefonica, e poi la voce di Ella che continua a chiamarlo, ma è come se dicesse Everytime we say goodbye, I die a little / Everytime we say goodbye, I wonder why a little / Why the Gods above me, who must be in the know / Think so little of me, they allow you to go.

22:46

- Hey Duke, ma quanto ci metti con quella lametta?

giovedì 20 novembre 2008

OPS... si muore

Oggi è morto un commerciante di prosciutti e salumi vari, i parenti affranti ne annunciano la triste scomparsa; i suini salutano con un certo senso di sollievo. Potrei dirvi che questa persona è stata molto importante per la mia vita e la mia crescita umana e lavorativa, ne conserverò un intenso ricordo. E basta. Fin qui non ho espresso pareri positivi riguardo al defunto, e se la mia etica me lo permette, non lo farò: è morto un triviale fascista schiavo del denaro, questo si, però era un uomo sorridente. Se avesse potuto avrebbe venduto anche il sorriso, e forse l’ha fatto. Ci lascia oggi un uomo che ha dedicato la sua vita al lavoro e allo stereotipo degli ideali che andavano così di moda durante il ventennio; dire che solo i migliori se ne vanno in questo momento mi sembra fuori luogo. Mi chiedo se in qualche modo dovrei sentirmi in colpa per queste parole, mettendo in chiaro che non voglio mancare di rispetto a uno che non può più controbattere; con lui sono stato abbastanza falso da essere quasi sincero, e se l’ho ascoltato a lungo è perché avevo qualcosa da imparare. Facendo il contrario. Ma aimè, d’affetto non è il caso di parlarne, anche se è il nonno di uno dei miei amici. Fascista, pure lui, ma con più stile e freddezza. Ricordo la prima volta che vidi una persona morta: ero piccolo, abbastanza da non sapere quanti anni avessi, ma ero piccolo, dalla qualità del ricordo direi che è uno dei più vecchi che ho. La protagonista era un’anziana amica di famiglia, una di queste donnone che stanno in campagna ma che poi non devono aver vangato molto in vita loro; quando andavo a trovarla con i miei genitori era molto gentile, e mi lasciava sempre l’ultimo wafer. Dopo essersi mangiata gli altri. Perlopiù credo di aver intrattenuto un rapporto di merenda con lei, ma per un bambino che ha fame è già molto. Il giorno che morì i miei vollero che assistessi al funerale; non ricordo se al tempo mi ero già posto il problema della morte, di sicuro la questione non tardò a prendere forma. Penso che sia stato il funerale più bello a cui sono stato, l’unico visto dentro la casa, e non solo la cassa, del morto. Devo dire una cosa: non sembrava affatto che dormisse, e le ragioni sono molteplici. Innanzitutto sarei stato molto imbarazzato a fissare una persona che dorme, invece mentre ero là capii che a quella signora non davo affatto fastidio mentre la guardavo. Secondo, chi di voi ha mai dormito in una cassa leggermente foderata con un velo di tulle sopra? Non molti, direi che come minimo porta sfiga. Terzo, la gente non si riunisce per vedere qualcuno che dorme, e anche se lo facessero non ci andrebbero con quelle facce lunghe e grigie. Quarto, non c’era il tè, non mi stava offrendo l’ultimo wafer, e non aveva l’aria di aver voglia di alzarsi per prenderlo. Infine la luce. Non quella di cui l’anima della defunta era probabilmente invasa, ma quella che illuminava la sua salma e tutta la stanza intorno; è stato il momento più sepia della mia vita, era pomeriggio eppure dalle finestre passava solo uno spiraglio di luce tenue. O forse erano le candele, non saprei dirlo, il fatto è che la stanza era molto polverosa, quasi come se il corpo per anticipare le tappe volesse essere cenere prima del previsto, e così l’aria era satura di questo pulviscolo sospeso, quel velo che adesso aggiunge la grana necessaria nella memoria ingiallita. Quella è stata la mia prima morte, e tante ne sono seguite. Tra le più importanti il padre di una mia vicina di casa, il che lo rendeva un mio vicino di casa, una figura che ero abituato a vedere in giro. Lui però non l’ho più visto, neanche a simulare male il sonno. È stato importante perché gli volevo bene, anche solo per abitudine, ma gli volevo bene, e per la prima volta scrissi i miei pensieri su una morte che oltre ad essere reale mi era vicina. Un altro trapasso importante è stato quello del mio cane, Olmo, un momento disturbato dal pianto di mia mamma, che nonostante fossi già grande, non capii. A lei non era mai stato simpatico, ci aveva parlato si e no un paio di volte e per dirgli di fare una passeggiata da solo, mai una carezza, e ora tutta questa disperazione? Da quel momento però compresi che la morte non può che essere femmina, infatti non la capisco. Come non capisco le lacrime: non ho mai pianto per un morto, se escludiamo una lacrima per una ragazza che era praticamente sconosciuta, ma lei fa parte di un particolare caso in un particolare momento della mia vita. Forse il coinvolgimento è sempre stato troppo parziale, forse il clima non mi ha mai stimolato, ma ai funerali la gente mi sembra un po’ meno intelligente, un po’ più omologata, alla faccia di “ognuno reagisce in modo diverso di fronte a questo grande mistero”. È vero però che non ho mai saputo cosa dire, e ora invece ho voglia di scrivere, ma se dovessi trovarmi di fronte ai parenti del neomorto sfodererei il mio sorriso mesto circostanziale e me ne starei in silenzio, pronunciando forse a bassa voce il nome del mio interlocutore, come a voler dire: “capita”. Troppo cinico? No dai; prendiamo mia nonna. Mia nonna ha avuto un ictus o una cosa del genere tanti anni fa, talmente tanti che non la ricordo senza, quindi per me la mamma di mia mamma era una donna che si muoveva lentamente, parlava lentamente e a volte si dimenticava il mio nome, ma faceva una gran pastalforno. Fino al giorno in cui ha smesso di farla. Poi ha smesso di camminare, poi di parlare, secondo me era perché si era dimenticata tutti i nomi e non voleva fare brutta figura. Poi sembrava che volesse smettere di vivere, ma non ci credeva fino in fondo, e così l’hanno portata all’ospedale. In quel periodo all’ospedale ci avevo messo le tende per una fidanzata un po’ rotta, così pensai: “ma guarda che coincidenza”. Già; c’era anche mia mamma, lei si, un po’ piangeva, però mia mamma è una tosta, lo sa che a volte capita, e ne capisce a fondo tutte le implicazioni. In quel periodo mia nonna dimagrì molto, aveva pure smesso di mangiare, le sostanze nutritive gliele mescolavano al sangue, un cocktail energetico che secondo me non doveva essere così buono. E poi morì, e se dovessi dire che ricordo il funerale affermerei il falso, e chi racconta bugie va all’inferno. Più o meno. Ricordo il funerale della nonna della mia vicina, quello si, mi sembrava la famiglia più sfortunata di sempre. E poi l’ultima immagine della mia falsa zia Anna, falsa perché era la zia di mamma, ma falsa anche perché era una di quelle abituata a mentire, invidiare, ostentare, anche quando masticava a bocca aperta. Per immaginarvela potete pensare alla “mamma” dei robot in Futurama, la pettinatura era quella. Ricordo la notizia dell’incidente fatale avvenuto alla madre di un ragazzo che sta ancora facendo la chemioterapia, e anche lui mi è sembrato il ragazzo più sfortunato del mondo, ma non lo conoscevo, e non lo conosco abbastanza. Pensate alla morte? Fatevi un giro nei cimiteri, è rilassante, e le lapidi sono magnifiche, mentre i fiori finti si potrebbero anche evitare, sembrano la stupida pretesa che qualcosa duri in eterno senza usurarsi, il desiderio frustrato di un’impossibile immortalità. Quindi torno al punto di partenza, perché in fondo parliamo sempre di una partenza, no? E se l’arrivo ci sfugge forse è meglio così, e se non sappiamo cosa dire ai funerali forse è meglio così, e se il giorno in cui qualcuno muore piove o c’è il sole sarà comunque meglio così, perché forse non poteva andare altrimenti. Perché si muore, e se moriamo felici forse è meglio così, ma se viviamo felici, non sempre, ma abbastanza per essere vivi, forse è ancora meglio.

venerdì 14 novembre 2008

PROFONDO DISGUSTO e una METAMORFOSI



È solo un corpo morto, un pezzo di carne che ha iniziato il suo processo di decomposizione, che scopo ha cercare di purificarlo? Non saprei, è che ormai mi sono affezionato, dopo tutto questo tempo. L’ho trovato per caso un giorno, nei miei pellegrinaggi, quando ancora non sapevo che si muore soli, era adagiato sulla poltroncina di un teatro, e non diceva niente. Non esprimeva né rabbia né commozione, non veniva voglia di toccarlo, tantomeno di spostarlo; non puzzava ancora, ma si capiva che era morto da un bel po’. Così l’ho preso con me, ho deciso di portarlo qua, a casa mia, posizionandolo come potevo su di un tavolo, in attesa di sapere dove metterlo. È il corpo di un superbo, la cui unica capacità era quella di sentirsi il solo a meritare di vivere il presente, preso dall’immagine che si era creato di se e che cercava di proporre agli altri. Mi sembra di sentirlo, pomposo, che si bea di argomenti di cui non sa nulla usando parole di cui a malapena conosce la corretta pronuncia: “il senso di trascendenza implicito al gesto mi a portato al culmine della gamma cromatica sensibile” per dire che era stato al bagno e ci aveva passato una mezz’ora della sua vita, che di tempo ne ha sempre avuto troppo, finché non ne ha avuto più.
Oggi mi sento inspirato, sarà che a vederlo così mi è venuta voglia di aiutarlo ad essere migliore. Nella cassetta degli attrezzi che ho preso in garage trovo un martello e una scatola di chiodi, di quelli grossi, per quadri importanti, per novelli Gesù da mutilare con cura, per appendere le immagini di se ingigantite fino a rivelare ogni insignificante particolare; ho il martello in mano e una sensazione di potere addosso, sorrido consapevole di avere tutto per me il cadavere che ho sempre sognato. La luce gialla illumina la stanza, il computer acceso emette un ronzio fastidioso che si mischia senza amalgamarsi al fischio continuo che mi urla nelle orecchie da due anni a questa parte, ed ora è come un vecchio amico che ti si è piazzato in casa e non vuole più andarsene; che caro, è così affettuoso! Mi metto le cuffie, due dischi volanti bianchi che costano di più perché ti emettono nel cervello meno schifezze elettroniche, come se davvero volessi fare il professionista o vivere così a lungo da poter raccontare di aver fallito. La musica è leggera, si addice alla prima notte di luna calante, si festeggia un evento importante: il ritorno del buio e la stigmatizzazione di un bastardo. Ingoio ad occhi chiusi una manciata di cereali secchi tipo corn flakes, però più buoni, e vibro il primo colpo.
Forte e obliquo sui piedi, sovrapposti per l’occasione. Dalle ferite esce un liquame rosso solo all’apparenza, sono piccoli grumi che schiumano via dalla pianta e macchiano il legno del tavolo. Questo è per non aver fatto più un passo, per essere rimasto immobile a fissare il mondo che ha continuato a girare; la tua superbia avrebbe voluto che si fermasse in contemplazione della tua morte, e invece è stato così dinamico da dimenticarti, rimpiazzarti con elementi più funzionali, come in una fabbrica lasciata in mano al socialismo. Il giorno in cui sei morto eri in una piazza, era notte e non c’era nessuno, solo il vento che sussurrava una verità relativa, ti spingeva a cambiare e tu non l’ascoltavi; non te ne sei neanche accorto che la vita scivolava via, troppo preso nel cercare di guardarti in terza persona per vedere se riuscivi lo stesso a piacerti. Quel giorno eri forte, come non potevi esserlo? Lo eri stato fino a quel giorno, una vita passata ad accrescere il proprio personaggio, a recitare una parte fine, dedicata a coloro che non hanno la dote di saper dire le bugie. E poi eri stato al mare da poco, e anche il sole ti baciava, e a volte basta così poco per sentirsi amati. Ma non ti accorgesti di essere da solo, e non capisti che lo saresti stato per il resto dei tuoi giorni, scivolato nel letargico, finale torpore.
Contemplo l’inizio dell’opera e devo dire che se mi impegno a volte riesco a creare anche qualcosa di interessante, tutto sta nell’applicarsi con dedizione, con trasporto. Un velo di sudore mi appanna gli occhiali mentre cerco qualcosa nella cassetta, devo trovare lo strumento giusto per il prossimo lavoretto, e sono così concitato da accorgermi solo dopo un paio di minuti che ce l’ho già in mano: il martello! Splendido, in due pezzi, manico di legno e testa di una lega arrugginita ma che picchia ancora duro. Sui ginocchi in frantumi. Mentre vibro i colpi sento le ossa piegarsi e spezzarsi, la rotula in frammenti fuoriesce dalla carne spappolata mentre le gambe si piegano in dentro, ridicole e scomposte, come se fossi atterrato su di loro dopo esserti buttato dal balcone di un quinto piano. Forse avresti dovuto. La seconda volta che sei morto eri proprio su quel balcone che aspettava di vederti saltare, e invece niente, perché ancora non sapevi d’essere morto, anche se c’era già qualcosa che puzzava. Era di nuovo notte, una notte d’estate non bella ma abbastanza calda da far pensare che il buio e il freddo siano entità distinte tra loro; illuso, ti saresti ricreduto presto. Un gatto grigio ti osservava in silenzio, battendo la coda prima a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra e così via, quasi a voler scandire il tempo che ti stava sfuggendo di mano. Quella sera pensavi che tutto sarebbe andato al posto giusto, come la prima volta che scarti un puzzle e vedi la figura in copertina senza la minima consapevolezza di tutti i pezzi che la compongono; non pensavi neanche di voler giocare, eppure qualcuno aveva già iniziato a mettere i tasselli in ordine, e anche se gli incastri a volte non sembrano giusti è solo perchè hai perso di vista il quadro completo.
Sembra che il prossimo passo sia obbligatorio nel moto d’ascesa di rivisitazione del corpo umano, e chi di voi ha giocato al dottore da bambino, o all’allegro chirurgo da grande, sa di cosa parlo. Le mani frugano nella cassetta, ma vanno a colpo sicuro e si stringono sulle cesoie, grandi e affilate da poco; sembra quasi uno spreco avere uno strumento così imponente per uno strumento così piccolo. Dà molta meno soddisfazione del previsto recidere via con un taglio unico il sesso molle del corpo inerme. Quello che cola dalla ferita aperta sembrano residui di epitalamo, ma dev’essere la poca luce, o la suggestione di aver sempre visto le persone ragionare con i genitali. Chissà, a nascere col potere come ci si sente, essere maschio a volte lascia un po’ interdetti, soprattutto il terzo giorno in cui muori; te lo ricordi il tuo, stupido corpo mutilato? Certo, anche quella volta eri in piazza, non erano passati che pochi giorni dall’ultima morte, ma in quel momento era pomeriggio e c’erano tante persone, e tu ti sei sentito come loro, un pezzo di folla, un illusione proiettata sullo sfondo; e ancora niente, non ti eri accorto che la vita da esserti scivolata accanto stavolta ti era proprio passata sopra ed eri stato schiacciato, da quel giorno ciò che oggi ti ho reciso sarebbe stato completamente inutile se non per compiacere la tua solitudine, e così sia, ma mi fa pena vederti in mezzo a quelle persone e scoprire che anche il sole aveva smesso di baciarti, seduto inerme e silenzioso all’ombra alta di un campanile che non aspettava altro che suonare la tua ora, ma la tua superbia non ti permetteva ascoltare. Eri in ritardo all’appuntamento con il tuo decesso, e non si può far aspettare troppo la morte.
L’ultimo gesto mi ha fatto sentire un po’ a disagio, va bene che devo dissacrare un corpo per creargli un nuovo valore, ma a volte mi lascio un po’ prendere la mano ed esagero con i miei sprazzi artistici. Guardo il corpo che non mi restituisce lo sguardo, anche questo sintomo dell’antica importanza che il cadavere si dava. Il prossimo oggetto è semplice quanto essenziale, non sta nella cassetta degli attrezzi, ma sospeso sul corpo disteso; non mi torna in mente di preciso quando o perché mi sono fatto montare in camera un oggetto simile, ma a quanto pare ogni cosa si rivela utile a tempo debito. Niente bisturi, niente anestesia. Il gancio sprofonda nella stomaco, centimetri di elastici ventricoli ammassati l’uno sull’altro, vuoti e inutili a tal punto che mi ricordano qualcuno. Quando sento di aver beccato una delle viscere più resistenti tolgo la mano dallo stomaco e tiro la catena, appendendomi con entrambe le braccia con una foga tale da perdere l’equilibrio, finendo per terra. Quando mi rialzo lo spettacolo è di una grazia tale da costringermi a scattare qualche foto allo stomaco nudo appeso in alto, ancora legato ma così leggero da essere sospeso, accompagnato da una stretta d’acciaio. Se tu avessi potuto sentire ancora la sensazione non sarebbe stata tanto diverso da quella che ti prese in un giorno di mare, circa un mese dopo l’ultimo decesso. Il quarto decesso avvenne di nuovo un giorno che il sole sembrava volerti abbracciare, eppure avevi freddo. Eri in spiaggia e stavi camminando, osservavi i bambini troppo grassi giocare con bambine che sarebbero diventate o troppo facili o troppo fragili. Non c’era niente che non andasse, è che assomigliava tutto a una pubblicità, a un reality girato così male da far vedere il trucco, da sfilacciare il velo di Maya, che si apriva per la prima volta su di te, scoprendoti morto. Una lacrima e poi un’altra, non poteva essere, non tu, così giovane e bello, così forte e coraggioso, così superbo che neanche l’oscura signora avrebbe potuto toccarti senza chiedere il permesso. Era già successo per tre volte, ma ora finalmente percepivi il profondo significato del decesso, una morsa gelida a quello stomaco che non hai più dentro di te; anche al tempo ben poco c’era rimasto, ma non fu la dieta, ma la consapevolezza quella che ti fece più male. Se ti può consolare nessuno notò il pianto, solo la sabbia, ma si asciugò presto, e anche il dolore si rivelò, somigliandoti, nella sua essenza: superfluo.
Se la vita delle persone fosse sempre in diretta, conciato così faresti uno share altissimo, almeno per qualche secondo, poi saresti già scontato; ma che ci vuoi fare, panta rei, gi attori, gli amori, le prime e le seconde serate, i fine settimana, le estati, i momenti brutti. Non il tuo però, il tuo iniziò quel giorno. Ma ora vediamo, come fare per tenere alta l’attenzione? Il rituale sta diventando noioso, ci vuole il gesto simbolico, il catalizzatore. Ho quello che ci vuole! Peccato, se tu fossi stato un vampiro ti avrei dato la pace, ma questo picchetto pigiato a spregio nel cuore, di cui spunta solo la capocchia piatta, ti fa sembrare più che altro la pulsantiera di un gioco a premi in cui è in palio la tua dignità di cadavere, e non c’è dubbio: tu hai perso! Colpire il cuore, così vicino ai polmoni da farmi pensare di aver traforato anche uno di loro, per me non sarebbe un problema, sono asmatico; questo muscolo carico di significati secondi che ti galleggia nel petto incassato non batte più, e la sua immobilità è così totale da farci chiedere se ha mai battuto davvero, offrendoti quei pochi istanti di vita necessari se si vuole morire con decenza, una, due, tre, quattro, cinque volte. Un bosco, di mattina stavolta; anche quel giorno apristi il cuore senza trovarci niente dentro, e gli alberi ti ascoltarono mentre confessavi di aver avuto qualcosa la dentro, una volta forse, sbiadita e confusa in mezzo alle costole, ma c’era. Il sentimento più forte quel giorno la facesti provare a una famiglia di cornacchie che ti videro passare, sconsolato e inconsolabile ora che sapevi la verità sul tuo decesso ormai passato e ripetuto in loop fino alla saturazione; gli uccelli ti guardarono a lungo prima di iniziare a gracchiare, e anche se non potevi tradurre con esattezza ti inchinasti alla fragorosa risata che stavi provocando.
Sono un po’ stanco e mi mancano le forze, stamani mi sono dimenticato di fare colazione e ieri notte di dormire. Però mi sento euforico, quest’attività mi da una certa soddisfazione pragmatica, un accanimento terapeutico approvato dal carnefice e ignorato dalla vittima, un po’ come nella realtà. Bisogna togliersi delle soddisfazioni finché si è in uno stato diverso da quello del mio ospite; certo se mi fosse capitato di incontrare il corpo di una ventenne avrei tentato forse anche qualche altra sperimentazione, ma che vuoi farci, non ci si può mica lamentare della provvidenza, anche se agisce per caso. È il momento del filo spinato, lo scopo è simulare una preghiera. Hai fatto in tempo a congiungere le mani e chiedere qualcosa a Dio? Se così non fosse cercheremo di rimediare presto, tu intanto pensa al desiderio che più vuoi veder frustrato, la realizzazione non sta in cielo o in terra, sta dentro di te fin quando riesci a tenere gli organi in attività. Ecco fatto, una passata di filo e abbiamo ottenuto un fedele silenzioso che eventualmente avrà dei problemi a genuflettersi. Nel vederti simulare la preghiera mi sembra di riconoscere le giornate in cui hai continuato con i tuoi decessi a catena, moto perpetuo di cui hai supplicato la fine, e quando hai visto che non sarebbe arrivata hai chiesto il massimo dolore possibile, per tutti. Ma se nessuno ti ascoltava da vivo pretendi che qualcuno senta la tue parole adesso? Pensi di essere più vicino a Dio? Ti sbagli alla grande, sei nell’abisso più scuro, e quando credi di aver già raschiato abbastanza il fondo ti si apre il livello successivo, e precipiti. Stupido cadavere che con le giornate si è fatto sempre più quieto e immobile, fino ad oggi.
Per l’ultima rifinitura sono di nuovo i chiodi a voler essere protagonisti, ma stavolta non ho bisogno del martello. Sto ascoltando “the Better Things to Come” di Lycia, un’eterea pagana che ha scelto di comporre in minore per le foreste e gli spiriti, per le cascate e l’orizzonte che comunque vada non potrai più vedere, con due chiodi conficcati nel bulbo oculare. Questo è l’epilogo giusto, il colpo di classe con due lunghe antenne da chiocciolina, che ti rendono meno cieco di quando potevi osservare e insistevi nel distogliere lo sguardo, proporti le tue versioni soggettive ed errate perché la verità esiste solo per chi la cerca e a te è sempre piaciuto mentirti. Come quel giorno a teatro, quando ci siamo incontrati. Eri andato per avere delle risposte e hai trovato nuove domande che mettevano in discussione il tuo personaggio, il tuo ruolo nella commedia sociale. Volevi che fosse il giorno per morire un’ultima volta, definitivamente, e rinascere pacificato. Non è accaduto, ma se prima eri solo a inquisirti da quel momento ogni ricordo della tua esistenza ti ha preso a schiaffi, cercando di svegliarti per svelare che c’è qualcosa di più interessante che continuare a morire, ci sono cose per cui forse, e forse è solo un modo di dire sicuramente, vale la pena Vivere. Così ti ho preso con me per cercare di finirti, ma anche adesso sento che vorresti liberarti per tornare a soffrire in pace, soluzione semplice per chi non sa combattere.
Mi piacerebbe saper fumare, adesso una sigaretta ci starebbe proprio bene, come con il caffè e il sesso, ma chi lo sa, non ho mai provato… ma c’è comunque qualcosa che non va, tu respiri ancora ed io invece sono sempre più stanco, mi si piegano le ginocchia, mi fa male la pancia e non ci vedo molto bene. La superbia non ti permette di morire una volta per tutte, ma stanotte sarò la cura al tuo male. E spiro. E ti porto via con me.

Adesso sei libero.
Credici.

sabato 8 novembre 2008

A DISAGIO


Velenoso, ma non come il cianuro, più come un cartone di latte dimenticato in spiaggia le prime due settimane di Agosto; in realtà sarei buono e dolce, il problema è che, a forza di passare, il tempo mi rende acido; finisco per mettere in circolo il mio stesso veleno, ma devo ammettere che la cosa che mi da più fastidio è vedere che sono l’unica vittima. Povero me, volevo uccidere qualcuno e adesso sono così dissociato da voler fare a pezzi l’abietta creatura che abita nello specchio: quella persona sorride e mi mostra i denti ringhia sbava ulula alla luna il suo fallimento, la sconfitta in una gara che giocava da solo. Vorrei strappargli la pelle, mettere a nudo quella carne che opprime, costringe a pensare alla instabile materia quando invece avrei mezzi per superarla. Non è vero, nessuno ce li ha, ma di solito sono piuttosto bravo a non essermi sincero. Come adesso, che insisto nel colpevolizzarmi; chi prendo in giro? Ho troppa stima di me per sentirmi responsabile, sono solo molto stanco e non voglio neanche tentare di star bene, richiede un impegno che non ho intenzione di dedicare a quell’evanescente scoria che mi brucia dentro, l’emotività latente. Conosco persone che ci convivono, poeti che ne parlano, musicisti che la raccontano, ma la mancanza di talento mi obbliga ad amplificare il malessere senza poterlo imprigionare in queste poche righe che domani il mio buonismo vorrà cancellare, e pensare che non sono neanche sbronzo. Ho attraversato la nebbia come un coltello, e guardandomi allo specchio somiglio a un mattino d’inverno, con i primi raggi dell’alba che sciolgono cristalli rappresi sugli arbusti più leggeri. Che immagine di merda. E che rabbia, per il mio profondo senso di centrifuga voglia di vomitare la tensione del ventiduenne frustrato. Ma chi l’ha detto che bisogna star bene? Chi ha detto che bisogna cercare la pace? Perché cerco di salvare il mondo se ne detesto il contenuto? Odio, non solo ma soprattutto me stesso, perché mi ero promesso un briciolo di autoironia in più, non vorrei prendermi sul serio, in fondo è solo una vita, una mucchio di esperienze perlopiù vane o al massimo autogratificanti; eppure non ci riesco. Sono le immagini, sono i ricordi, sono i miei schemi i valori i sogni le schegge per raccontare quello che avrei voluto essere adesso. Diverso. Sono le cinque e giuro non riesco a capire come ci sono arrivato, sette ore fa sono stato a disagio, e devo dire che adesso non mi sento molto meglio. Non rimpiango la felicità che non ho più, voglio solo che nessuno possa raggiungerla. Avete presente la storia del pendolo tra gioia e dolore, no? Beh, il mio offre dei brividi vertiginosi sul versante positivo; il problema è che durano meno di un respiro, ma poco importa se solo io posso averli, meglio di niente. Sono generoso, vi darò un indizio: la nebbia la mattina presto, le luci gialle della città notturna specchiate nel cielo nuvoloso, alcune canzoni sintetiche, il respiro di uno sconosciuto sul collo, una discesa veloce urlata senza mani, immergersi nel buio. Sono solo attimi, ma se non li avete notati forse avete perso qualcosa; comunque non sciupateli, sono un regalo prezioso, un motivo per sopravvivere a volte. Dio sa che lo ringrazio, sa che non vanificherò l’unica esistenza che ho, ma smette di essere divertente se non ci sono livelli da affrontare; il mio problema: sono bloccato a un boss, uno di quelli tenaci, non posso applicare una strategia valida che subito vengo sgamato e la barra dell’energia decresce. Ad ogni modo ce l’avessi davvero un piano non starei qui. Intrappolato, avvelenato, a disagio. Stanco del teatro dell’assurdo che mi recita in testa il dramma senza copione meno divertente e anche meno drammatico di sempre, stanco dei sorrisi che mi macchiano le labbra, stanco di ricordarmi chi sono, ogni giorno al risveglio. Prestatemi un sogno, devo andare a letto e li ho finiti.

cartoline dal mondo dei coniglietti [rosa e tagliati fini]