Oggi è morto un commerciante di prosciutti e salumi vari, i parenti affranti ne annunciano la triste scomparsa; i suini salutano con un certo senso di sollievo. Potrei dirvi che questa persona è stata molto importante per la mia vita e la mia crescita umana e lavorativa, ne conserverò un intenso ricordo. E basta. Fin qui non ho espresso pareri positivi riguardo al defunto, e se la mia etica me lo permette, non lo farò: è morto un triviale fascista schiavo del denaro, questo si, però era un uomo sorridente. Se avesse potuto avrebbe venduto anche il sorriso, e forse l’ha fatto. Ci lascia oggi un uomo che ha dedicato la sua vita al lavoro e allo stereotipo degli ideali che andavano così di moda durante il ventennio; dire che solo i migliori se ne vanno in questo momento mi sembra fuori luogo. Mi chiedo se in qualche modo dovrei sentirmi in colpa per queste parole, mettendo in chiaro che non voglio mancare di rispetto a uno che non può più controbattere; con lui sono stato abbastanza falso da essere quasi sincero, e se l’ho ascoltato a lungo è perché avevo qualcosa da imparare. Facendo il contrario. Ma aimè, d’affetto non è il caso di parlarne, anche se è il nonno di uno dei miei amici. Fascista, pure lui, ma con più stile e freddezza. Ricordo la prima volta che vidi una persona morta: ero piccolo, abbastanza da non sapere quanti anni avessi, ma ero piccolo, dalla qualità del ricordo direi che è uno dei più vecchi che ho. La protagonista era un’anziana amica di famiglia, una di queste donnone che stanno in campagna ma che poi non devono aver vangato molto in vita loro; quando andavo a trovarla con i miei genitori era molto gentile, e mi lasciava sempre l’ultimo wafer. Dopo essersi mangiata gli altri. Perlopiù credo di aver intrattenuto un rapporto di merenda con lei, ma per un bambino che ha fame è già molto. Il giorno che morì i miei vollero che assistessi al funerale; non ricordo se al tempo mi ero già posto il problema della morte, di sicuro la questione non tardò a prendere forma. Penso che sia stato il funerale più bello a cui sono stato, l’unico visto dentro la casa, e non solo la cassa, del morto. Devo dire una cosa: non sembrava affatto che dormisse, e le ragioni sono molteplici. Innanzitutto sarei stato molto imbarazzato a fissare una persona che dorme, invece mentre ero là capii che a quella signora non davo affatto fastidio mentre la guardavo. Secondo, chi di voi ha mai dormito in una cassa leggermente foderata con un velo di tulle sopra? Non molti, direi che come minimo porta sfiga. Terzo, la gente non si riunisce per vedere qualcuno che dorme, e anche se lo facessero non ci andrebbero con quelle facce lunghe e grigie. Quarto, non c’era il tè, non mi stava offrendo l’ultimo wafer, e non aveva l’aria di aver voglia di alzarsi per prenderlo. Infine la luce. Non quella di cui l’anima della defunta era probabilmente invasa, ma quella che illuminava la sua salma e tutta la stanza intorno; è stato il momento più sepia della mia vita, era pomeriggio eppure dalle finestre passava solo uno spiraglio di luce tenue. O forse erano le candele, non saprei dirlo, il fatto è che la stanza era molto polverosa, quasi come se il corpo per anticipare le tappe volesse essere cenere prima del previsto, e così l’aria era satura di questo pulviscolo sospeso, quel velo che adesso aggiunge la grana necessaria nella memoria ingiallita. Quella è stata la mia prima morte, e tante ne sono seguite. Tra le più importanti il padre di una mia vicina di casa, il che lo rendeva un mio vicino di casa, una figura che ero abituato a vedere in giro. Lui però non l’ho più visto, neanche a simulare male il sonno. È stato importante perché gli volevo bene, anche solo per abitudine, ma gli volevo bene, e per la prima volta scrissi i miei pensieri su una morte che oltre ad essere reale mi era vicina. Un altro trapasso importante è stato quello del mio cane, Olmo, un momento disturbato dal pianto di mia mamma, che nonostante fossi già grande, non capii. A lei non era mai stato simpatico, ci aveva parlato si e no un paio di volte e per dirgli di fare una passeggiata da solo, mai una carezza, e ora tutta questa disperazione? Da quel momento però compresi che la morte non può che essere femmina, infatti non la capisco. Come non capisco le lacrime: non ho mai pianto per un morto, se escludiamo una lacrima per una ragazza che era praticamente sconosciuta, ma lei fa parte di un particolare caso in un particolare momento della mia vita. Forse il coinvolgimento è sempre stato troppo parziale, forse il clima non mi ha mai stimolato, ma ai funerali la gente mi sembra un po’ meno intelligente, un po’ più omologata, alla faccia di “ognuno reagisce in modo diverso di fronte a questo grande mistero”. È vero però che non ho mai saputo cosa dire, e ora invece ho voglia di scrivere, ma se dovessi trovarmi di fronte ai parenti del neomorto sfodererei il mio sorriso mesto circostanziale e me ne starei in silenzio, pronunciando forse a bassa voce il nome del mio interlocutore, come a voler dire: “capita”. Troppo cinico? No dai; prendiamo mia nonna. Mia nonna ha avuto un ictus o una cosa del genere tanti anni fa, talmente tanti che non la ricordo senza, quindi per me la mamma di mia mamma era una donna che si muoveva lentamente, parlava lentamente e a volte si dimenticava il mio nome, ma faceva una gran pastalforno. Fino al giorno in cui ha smesso di farla. Poi ha smesso di camminare, poi di parlare, secondo me era perché si era dimenticata tutti i nomi e non voleva fare brutta figura. Poi sembrava che volesse smettere di vivere, ma non ci credeva fino in fondo, e così l’hanno portata all’ospedale. In quel periodo all’ospedale ci avevo messo le tende per una fidanzata un po’ rotta, così pensai: “ma guarda che coincidenza”. Già; c’era anche mia mamma, lei si, un po’ piangeva, però mia mamma è una tosta, lo sa che a volte capita, e ne capisce a fondo tutte le implicazioni. In quel periodo mia nonna dimagrì molto, aveva pure smesso di mangiare, le sostanze nutritive gliele mescolavano al sangue, un cocktail energetico che secondo me non doveva essere così buono. E poi morì, e se dovessi dire che ricordo il funerale affermerei il falso, e chi racconta bugie va all’inferno. Più o meno. Ricordo il funerale della nonna della mia vicina, quello si, mi sembrava la famiglia più sfortunata di sempre. E poi l’ultima immagine della mia falsa zia Anna, falsa perché era la zia di mamma, ma falsa anche perché era una di quelle abituata a mentire, invidiare, ostentare, anche quando masticava a bocca aperta. Per immaginarvela potete pensare alla “mamma” dei robot in Futurama, la pettinatura era quella. Ricordo la notizia dell’incidente fatale avvenuto alla madre di un ragazzo che sta ancora facendo la chemioterapia, e anche lui mi è sembrato il ragazzo più sfortunato del mondo, ma non lo conoscevo, e non lo conosco abbastanza. Pensate alla morte? Fatevi un giro nei cimiteri, è rilassante, e le lapidi sono magnifiche, mentre i fiori finti si potrebbero anche evitare, sembrano la stupida pretesa che qualcosa duri in eterno senza usurarsi, il desiderio frustrato di un’impossibile immortalità. Quindi torno al punto di partenza, perché in fondo parliamo sempre di una partenza, no? E se l’arrivo ci sfugge forse è meglio così, e se non sappiamo cosa dire ai funerali forse è meglio così, e se il giorno in cui qualcuno muore piove o c’è il sole sarà comunque meglio così, perché forse non poteva andare altrimenti. Perché si muore, e se moriamo felici forse è meglio così, ma se viviamo felici, non sempre, ma abbastanza per essere vivi, forse è ancora meglio.
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