
martedì 13 maggio 2008
domenica 17 febbraio 2008
il Sacerdote
Orologio - 02:14. Chiudo gli occhi seduto sul letto, ma non funziona; tento di resistere, fino allo stremo; i nervi tesi verso un unico pulsante desiderio che stanotte non mi permetterò di avverare, credo, spero, forse; combattuto tra lo stomaco e il cervello dirigo la battaglia sviando i pensieri verso l’Africa e i suoi rigonfi abitanti, verso gli unti USA, sopra le terre di birra e cioccolato, al nord. Ma niente, non ci riesco, come un automa con la spia del carburante rotta mi avvio verso non necessari rifornimenti, per passare un’altra gelida notte al calduccio, sprofondato senza sensi nel piumone, in attesa che i sogni sfamino la mia mente altrettanto bene di come la mia mancanza di volontà farà col mio corpo. Strascico i piedi, non voglio far rumore e in qualche modo mi rallento per poterci ripensare, oppure è un modo come un altro per consumare meno calorie possibile; peccato che la distanza che devo compiere è minima, appena pochi metri, un gradino per entrare nel soggiorno-cucina e ancora qualche passo prima della meta ambita quanto maledetta. Stavolta sembravo esserci riuscito, a nanna presto dopo lauta cena a base di spinaci, funghi e salciccia [si scrive così NdA], niente che potesse disturbare il sonno che comunque alla fine tarda ad arrivare e rimane piuttosto rarefatto per un’ora, quando l’impulso che mi divora mi fa scattare in piedi e mi concede la forza di muovermi togliendomi la voglia di dormire finchè non avrò commesso l’infame peccato. È di fronte al bianco totem che mi immobilizzo e piano spalanco le sue fauci, irradiandomi di molteplici odori e neon azzurro. Formaggino? Cioccolata? Salumi? Marmellata? Ancora funghetti? MAIONESE [resisti, non pensare che esiste]? Verdurine sottolio? Un sorso di succo di mela per iniziare, la scelta è vasta e stasera non ci sono indicazioni particolari da seguire, quindi vada per finocchiona e taralli, senza pietà, a volontà. Prima di uscire dal frigo col mio incartamento di plastica getto un'altra occhiata verso il tubetto della mayò, fatta con lo yogurt, così poco grassa, così sana che ci si può lavare i denti, così bianca buona BASTA! Chiudo lo sportello e mi lascio alle spalle un pensiero di troppo. Seduto al tavolo tolgo la molletta al sacchettino delle croccantissime rondelle di magica farina che vengono immediatamente ed ampiamente circondate di splendido rosa non troppo sottile salame e poi deglutisco in una sola mandata di puro piacere papillifero, e un po’ della morsa di pseudofame si allenta, pur non lasciandomi ancora la scelta di smettere; eccone un'altra che arriva… AAAH! Buone, per davvero; forse non è l’ora giusta, ma allora quando lo è? E ad ogni modo il senso di colpa già inizia a svanire, e al suo posto il tipico stordimento suino che quando sarò di nuovo a letto mi cullerà fino a farmi addormentare con un peso in più sullo stomaco e uno in meno nello spirito.
Perché questo è il mio problema: io, alle due di notte, mangio. E non lo faccio a volte o spesso, lo faccio sempre; tranne circostanze eccezionali [tipo essere inchiodato al muro] a quest’ora di notte un demone sopito si desta e mi costringe a cibarmi finchè, placato, non ordina di tornare a letto per cominciare il sonno e la digestione. I dietologi a volte parlano di questa strana usanza e, con le loro lunghe dita scheletriche, fanno segno di “No, no, questo comportamento è dannoso per i bioritmi del corpo, altera la regola universale dei 5 pasti giornalieri equilibrati con i tipi di calorie che abbiamo sancito devono essere suddivisi secondo legge dogmatica sui cibi dei cittadini che pretendono una vita sana senza sapersi equilibrare [tutti]… e questa piccola abbuffata fuori programma non va affatto bene”. Ma a chi? A voi? Pensate che l’equilibrio sia sinonimo di felicità? Imparate che sapore ha il maiale ha alle due di notte e poi ne riparliamo, e se non vi piace è per quella creatura infida che vive nel vostro cervello e pretende di regolare lo stomaco.
Ma nonostante sia così bravo a parlare anch’io tendo a non credermi, e un vago senso di colpa si presenta ogni volta prima dell’infame gesto. Tralasciamo le deleterie ultramangiate dopo le batoste d’Amore, quando lo stomaco completamente chiuso invoca pietà mentre senza compassione ci ingozziamo di mix apocalittici a limiti dei sapori che tanto non sentiamo, basta infilare in bocca e masticare e mentre la mandibola si alza e abbassa e il nostro cervello si occupa di coordinare il movimento non pensa che forse sarebbe meglio farsi un discorsino e darsi Pace. Beh, a parte tutto la storia non è così catastrofica, il Dio che regola i 20th anni ha deciso di equilibrare in maniera decisamente vantaggiosa la quantità di sostanze ingerite con il peso effettivo dell’ingozzatore, cosicché, oscillando tra la fine dei 60 e la metà dei 70, mantengo il pesoforma ideale mangiucchiando fuori orario ogni notte. E a quanto pare non sono il solo.
Ogni notte, a questa stessa ora al piano di sopra, qualcosa si muove non troppo silenziosa verso una meta conosciuta e si appresta a compiere lo stesso rituale. Non ho mai visto i vicini che abitano sopra la mia testa, una coppia molto riservata che stavano già in questo decrepito condominio prima che arrivassi. È da poco che ho captato la presenza di due persone nell’appartamento: prima gli unici movimenti percepiti erano quelli che accompagnavano gli spuntini notturni di un potenziale uomo corpulento, ma già da qualche settimana una stridula anziana voce di donna sembra voler bloccare gli incontrollabili gesti, il che provoca brevi ma intensi litigi unilaterali che animano la notte del vecchio palazzo. Voler bloccare il cibo perché? Per non dover ammettere che è solo una compensazione, un piacevole sfogo alla velocità che di giorno ci fa correre in continuo senza arrivare mai, stringendo i denti, ed è noto che a denti stretti si mangia piuttosto male; oppure perché mangiare sostituisce altre attività ben più ricreative [e dimagranti] ma anche impegnative, momenti in cui non è possibile nascondere al partner che nulla è rimasto nello spirito che col tempo si è fatto pesante e impacciato e vagamente odorante di fritto; o forse per l’estetica, ultimo vero valore da cui non possiamo trascendere, motore primo dei giudizi che nessuno risparmia; o ancora per una vecchia ma pur sempre valida convenzione internazionale che mai ci risparmiamo di obliare, la menata [randomizzata], perché di qualcosa dovremo pur lamentarci, no?
- La devi smettere di svegliarti tutte le notti a quest’ora per rapinare il frigo, lo vedi come sei ridotto?
- E dai smettila, assaggia questo rigatino spalmato sulle fette biscottate
- Mi fai vomitare, pesi 130 chili e non te ne frega niente, cerchi ad ogni modo di farti esplodere il fegato e un giorno ci riuscirai, sono sicura! Ma non hai un minimo di amorproprio?
- Mangio perché ce l’ho
- Quante cazzate che ti sento dire! Mai una volta che sia possibile ottenere una risposta sensata o completa, sempre a trovare modi per sviare il discorso verso la tua fintosofia di vita, che è solo un modo per nascondersi da te stesso e dalla opprimente quanto chiara realtà, CICCIONE!
- Sto iniziando a rompermi, lo vuoi un morso di gorgonzola e marmellata di ciliege?
- Ma poi che schifo di mischioni sono questi, perlomeno cerca di ingurgitare roba sana; quando ti ho sposato avevi molto più coraggio ad ammettere i tuoi limiti e cercare di superarli, adesso sei solo una montagna di lipidi in attesa di essere fritta.
- Ultima possibilità: coktail di gamberetti con cioccolata al latte?
- Ma esplodi…
- Sai, mi sono ricordato adesso che ti ho comprato una cosa, adesso te la porto.
- Mpf…
- Sto arrivando…
Che carini, questo si che è amore! Certo non dev’essere facile vivere con una baleniera arenata, però che acidità! Perlomeno adesso hanno smesso di litigare e si sente muovere un po’ il letto, deve avergli regalato qualcosa di veramente carino per farsi perdonare. Meglio infilarsi subito sotto le coperte, finche le calorie sono in piena circolazione. E come per ogni formula magica attuata con successo il sonno non tarda ad arrivare durane la metamorfosi delle sostanze ingerite in energia onirica. Ci vuole forza per sognare.
Sono passati giorni, forse settimane. Questo palazzo puzza sempre di più, sembra impregnarsi dei miasmi della propria decomposizione. Il mio morbo notturno non ha smesso di agire, ma perlomeno i vicini hanno smesso di litigare; mentre striscio verso cucina un silenzio quasi totale mi circonda, anche se non è difficile intuire i movimenti fuori dalle finestre: macchine in ipervelocità proiettate verso divertimenti di lamiere contorte e etilicoca, luci strobo sudore dentro fuori vestiti attillati fabbriche di illusioni in movimento perpetuo dev’essere sabato sera e non me ne sono accorto, vivo per me stesso e decido il tempo necessario per esistere e scomparire, non esco, non sento i miei amici da un po’ e ho vagamente mal di testa, ma intanto sono già al frigo e aspetto li davanti in attesa di una rivelazione su ciò che potrei trovarvi dentro; passano alcuni minuti prima che capisca che aprirlo è il modo migliore per rispondersi. Vuoto. Chiudo, riapro. Vuoto. Mi giro e poi completo la rotazione. Vuoto. Incrocio gli occhi dopo essermi messo in verticale reggendomi sui mignoli, ma il cambio di prospettiva non cambia le mie prospettive. Vuoto. Lo stomaco si stringe, questo non va bene, devo procurarmi del cibo, dispensa: la pasta è finita, il cibo liofilizzato è finito, l’acqua è finita, i salatini sono finiti. È un po’ che non esco, l’avevo già detto? Vago nella cucina senza speranza quando RUMORE come di corpo che cade sulla mia testa sopra la mia testa qualcosa è sbattuta per terra con la forza di più di cento chili di carne flaccida. Il mio vicino! È in pericolo? Cosa sarà successo? Devo andare ad aiutarlo, potrebbe essere caduto e ora non riesce a rialzarsi e sua moglie è troppo anziana o troppo addormentata; è il mio dovere di vicino interessato, e sono sicuro che poi mi sarà riconoscente e mi offrirà qualcosina da sgranocchiare, si ho fame e sto prendendo la decisione giusta quindi non occorre agghindarsi devo sbrigarmi prima che si tiri su da solo.
Esco nel pianerottolo con il pigiama le pantofole e le cuffie del lettore mp3 che però non penzola oltre il minijack, chissà dov’è caduto ma non ho tempo sono un piccolo eroe urbano che cerca un’ipotetica vittima e sconvolgendomi i capelli con la mano libera afferro il corrimano e mi spingo in alto sulla rampa di scale, due scalini alla volta con slanci di tre per arrivare prima sul pianerottolo di intersezione, non ho acceso la luce e quella della luna proiettata dalla finestra in alto è scarsa, scivolo ma riesco a riprendermi al volo e volo verso l’assenza di suono del piano di sopra, un livello ovattato abitato da sconosciuti con cui condivido una porzione di spazio vitale privato, l’odore del palazzo a questo piano è ancora più forte e il mio stomaco si stringe, sa che ci stiamo avvicinando verso un maestro degli spuntini notturni, una persona che ha fatto di una maledizione virtù e credo religioso, come non sentire la benefica influenza di questa figura di culto che sta per ricevere un ospite inatteso; la porta del suo appartamento non è stata chiusa per bene e spingendo un po’ si apre, come se mi stesse aspettando. Dentro è quasi buio, qualche candela accesa sparsa per il salotto proietta le silhouette dei pochi oggetti che compongono un arredamento scarso e decisamente di poco gusto: un vaso finto greco che dovrebbe fare da ombrelliera pieno di un liquido vischioso vicino alla porta, un tavolo di plastica bianca, di quelli da giardino, al centro della stanza, coperto da una tovaglia di plastica trasparente imbrattata di una sostanza marrone e secca, un divano verde acido piazzato storto di fronte a un piccolo televisore con un tubo catodico immenso, acceso su rete4, un tappeto strappato e polveroso, un armadio tarlato con dei libri di cucina folkloristica amazzonica, un corpo grasso privo di sensi a fianco del divano. Aspetta, questo non è arredamento.
- Si svegli, signore… si svegli la prego, ha preso una brutta botta ma tra un po’ andrà meglio; ho sentito un forte rumore e sono salito quassù a vedere come stava, sono il vicino del piano di sotto
Qualche goccia di acqua fresca in faccia fa sbattere gli occhi cisposi del gigante, che annaspa un po’ e poi si sveglia, volgendosi verso di me che parlo senza sapere che non ha capito nulla, ma non importa, perché mi sorride debolmente.
- Grazie davvero, penso di aver avuto un calo di zuccheri, ma adesso sto meglio; devo aver fatto davvero un bel botto cadendo, eh!? Oh beh, mettiamoci su, le spiace?
È davvero gentile, ha l’aspetto di due uomini di quarant’anni che hanno sommato i loro acciacchi; lo aiuto a rimettersi in piedi, e non è affatto semplice. Adesso che riesco di nuovo a rilassarmi sento che in questa casa la puzza è quasi nauseante, e in parte è anche colpa dell’omone: prende una candela illuminandosi una canottiera incrostata da tempo stirata dalla pancia, mette in luce le mani rotonde come insaccati macchiate di sugo o qualcosa di simile; indossa dei bermuda lunghi fin sotto il ginocchio, ai suoi piedi un paio di calzini blu troppo piccoli; la faccia rimane in ombra, solo il collo mastodontico e i suoi molteplici menti brillano unti di sudore. La figura nel complesso ispira un vago senso di tristezza, compassione facile scaturita dalla gentilezza di questo essere enorme, verrebbe voglia di abbracciarlo se non puzzasse così. Lo stomaco mi uggiola e gli sorrido.
- Fame? Non me ne parli, quest’ora è fatale per gli amanti degli spuntini, e come può vedere... ti posso dare del tu o qualcosa da mangiare?
- Accetto molto volentieri entrambi!
Mi appoggia una mano sulla spalla e mi spinge verso la camera da letto, indicandomi la strada e invitandomi a precederlo; probabilmente ha la sua scorta personale direttamente sotto il letto, così da non doversi spostare disturbando la moglie. Già, la moglie; chiedo se è un problema, se rischiamo di svegliarla a quest’ora, ho sentito che è piuttosto irascibile; l’uomo scuote la testa e mi sussurra che lei da un po’ di tempo ha il sonno pesante. Siamo di fronte alla porta di camera, la spinge deciso restandomi dietro, ma la luce della candela muore sull’uscio, e quando la porta finisce di spalancarsi c’è solo una stanza buia, un gelo incredibile e tanto, tanto tanfo. CLiK, una luce al neon inizia l’intermittenza prima dell’accensione, i flash accecano e stordiscono tanto da farmi chiudere gli occhi; quando li riapro lentamente la stanza è illuminata di azzurro chiarissimo. La moglie mi sorride seduta sul letto, con la schiena appoggiata alla testiera; mi sussurra di venire avanti, osservandomi con i suoi occhi stretti e drogati. La sua mano sinistra è legata ad una sbarra di metallo del telaio, l’altra è scomparsa insieme a buona parte del braccio, cauterizzato quasi all’altezza della spalla; le gambe sono segate entrambe poco sotto le ginocchia annerite; le sono stati asportati alcuni pezzi della coscia destra e di entrambi i fianchi, un seno e il mento, ma non sembra soffrire troppo.
- Sai com’è, sono un farmacista, mischiando le giuste dosi di morfina, prozac e tranquillanti si può annullare quasi completamente, senza ucciderla, il sistema nervoso e i suoi stimoli negativi, tipo dolore, voglia di piangere o urlare; niente menate, solo un esistenza felice in stato semi-vegetativo. Ma prego, vai avanti…
Mi muovo verso la donna tumefatta che sembra voler tendere il suo ex-braccio verso di me, poi ci ripensa e torna immobile, guardando in basso, verso le gambe e quel lembo di coperta che dovrebbero ancora coprire. Una lacrima le toglie lo sporco dal viso, fermandosi tra le labbra. Trema leggermente e ha smesso di sorridere.
- È l’ora della medicina, cara!
L’uomo va verso il comodino dalla sua parte del letto, prende una siringa e ne inietta il contenuto nel collo della consorte. La faccia di questa si distende, sembra che con la mente fugga verso il suo interno [che probabilmente non rimarrà interno ancora a lungo], si rintana in un luogo dove lui non potrà estirparla, non senza ucciderla.
- Va meglio ora, bellezza? Hey ragazzo, fatti avanti, prego… gradisci un pezzo?
Adesso ha in mano un coltello sottile e appuntito con il quale mi indica ciò che rimane dell’appetitosa signora. Lei sembra non capire, ma è molto probabile che non capisca davvero: adesso si muove catatonica avanti e indietro canticchiando la canzone di un vecchio cartone animato, soffiando via parole sbagliate. Sono sconcertato: non pensavo di avere tutta questa scelta.
- Gradirei assaggiare un orecchio, ma se non è troppo disturbo mi farebbe gola anche un dito
- Per l’orecchio non c’è problema, ti prendo il sinistro, è più bello. Le dita mi dispiace, ma le ho finite
Non mente, la mano legata è in realtà solo un moncherino che non afferrerà mai più niente; poco male, il macellaio taglia una striscia sottile tra il ginocchio e l’inguine, arrotolandovi l’orecchio dentro. Compiaciuto si volta verso di me sorridendo, estremamente e palesemente soddisfatto della professionalità del proprio hobby; restituisco il sorriso. In cucina sono ammassati piatti e tegami sporchi di quello che adesso capisco essere sangue e qualcos’altro di semisolido che non è dato sapere da quale parte del corpo provenga. Il mio ospite [si, la parola vale anche per colui che ospita] prende una padella unta, la passa per troppo poco tempo sotto l’acqua del rubinetto, mentre mi invita ad accomodarmi. Un filo d’olio di semi, una manciata di sale, qualche erba aromatica soffritta e il nostro pasto notturno inizia a cuocere.
- Vedi, sono decisamente contrario all’omicidio, c’è già troppa violenza a questo mondo per entrare a far parte del circolo; e poi non fraintendermi, amo mia moglie, ma era fermamente convinta di poter giudicare senza capire, e questo atteggiamento è così fastidioso quando si tenta di instaurare un rapporto stabile di reciproco affetto. Adesso parliamo molto di più, o almeno io le parlo e lei mi ascolta, assorbe ciò che le dico senza interrompermi continuamente: così le racconto la storia della mia vita, le faccio capire la mia malattia, che è anche la tua, credo; le spiego di come questa necessità diventi in breve tempo regola notturna, dell’impossibilità di sottrarsi, della gioia finale che cancella l’umiliazione di non essere riusciti a controllarsi. E così viviamo meglio in due anche se, fra un po’ di tempo, smetterò di cibarmi di lei e la farò tornare alla lucidità, sicuro del fatto che avrà compreso la mia posizione e saprà accettarla. Grazie alle mie cure sono sicuro di non farla soffrire, o ucciderla. L’ho anche fatta assaggiare, un decotto epidermico, e sembra si sia piaciuta; a te come sembra?
- È veramente molto buona, non pensavo potesse avere un sapore così ben equilibrato… ma sono sicuro che questo è anche merito dello chef!
Alza gli occhi al cielo, sembra molto lusingato delle mie parole. Adesso il suo volto è parzialmente visibile e osservandolo noto che, sotto diversi strati di ciccia, un po’ mi somiglia, c’è qualcosa sia nei suoi tratti che nella sua consapevolezza che ci rende esseri affini, e non mi sbagliavo: mi trovo di fronte a un sacerdote di questo culto.
Concluso il breve pasto lo ringrazio calorosamente e mi alzo; l’uomo sembra rattristarsi, probabilmente non riceve molte visite e alla fine la moglie non dev’essere particolarmente di compagnia, così gli prometto che tornerò a trovarlo, dopotutto non siamo così lontani. Un po’ di colore gli illumina le guance, le mie poche parole gli sono state di conforto. Mi riaccompagna in camera dove saluto la moglie e poi all’ingresso, dove ci salutiamo con un breve abbraccio. Sento la porta chiudersi dietro di me quando sono nel pianerottolo di mezzo, segno che ha guardato mentre mi allontanavo. Strano modo per farsi nuovi amici, ma in fondo basta essere di mentalità aperta e tutto si semplifica decisamente, permettendo alle persone di entrare reciprocamente a far parte del proprio intimo universo interiore.
Orologio - 2:47. Mi metto a sedere sul letto, strofino gli occhi cisposi, ho uno strano sapore in bocca; non ho fame, ma sento l’impellente necessità di trovarmi una fidanzata.
venerdì 1 febbraio 2008
Favola d'Autunno
Tanto tempo fa, in una terra non così lontana ma sicuramente più a nord di qua, Alos, la principessa dei sospiri, guardava verso il mare; non ci è dato sapere se lo vedesse davvero perché ancora non è chiara la geografia del luogo o il tempo in cui si svolge la vicenda; sappiamo però che si era in un periodo in cui molte cose dovevano ancora essere decise: la pizza non imbandiva le corti della camorra, l’erba della Jamaica non veniva mischiata con il tabacco ma con la citrosodina, non esistevano le stagioni e l’odorato dei lemuri era ancora in fase di sperimentazione; il gorgonzola c’era già, però non si sapeva con cosa abbinarlo, c’era la collezione di figurine del Papa eppure Gesù non era nato, l’aceto balsamico non era balsamico perché non esisteva Modena. Ma una cosa c’era, ed era bella e profumata come lo è oggi: i fiori. Sette in tutto il mondo. Non potevano morire perché non esistevano le stagioni, non volevano dire niente perché non c’erano convenzioni, non te ne venivano dati molti come nelle promozioni, non venivano mangiati durante laute colazioni eccetera continuate voi. Ma perché abbiamo nominato Alos per dimenticarla già? E perché guardava il mare? Un attimo di pazienza. Sei di questi fiori erano già stati colti per essere regalati alle sei donne più belle del reame [o del rame]; le donne che li avevano ricevuti in dono da valorosi guerrieri ammazzadraghi [lavoro facile perché i draghi non esistevano manco allora] l’avevano data via subito, motivo per cui i sei maschi fortunati si erano messi d’accordo e avevano aperto un bordello alle pendici del monte “è verso est” [che poi è stato accorciato “Everest” per praticità]. Lentamente le giovani erano sfiorite insieme ai loro empatici doni [che non morivano ma soffrivano comunque], fino al giorno in cui alcune menti geniali al servizio di sua mestà [era molto triste - ma sua di chi?] inventarono contemporaneamente la tinta per capelli e il giardinaggio. Le sei oche da accoppiamento e gli organi riproduttivi delle spermatofite poterono tornare a mostrare il meglio di loro, pur ancora ignari che con questo piccolo gesto una cosa più grande e grave era nata:
Viveva al tempo a Pomezia [la città del ponteponentepontepi tappetapperugia] un cavaliere di dubbio valore e gusti che passava le giornate a cavalcare nelle desolate lande attorno alla sua città natale; era di ricca famiglia, ma era stato allevato da una coppia di zebre a pois perché al tempo dovevano essere ancora inventate le tate [per questo si dice “inventate”] e il progetto delle zebre doveva essere rivisto. Il giovine crebbe forte e di bell’aspetto, nessuna donna e nessun equino avrebbe saputo resistere al suo ammaliante odore muschiato. Si, ma Alos? Pazienza. Sfortunatamente IIIH [questo il nome scelto per lui dalle zebre] non aveva aspettative nella vita, sembrava deciso a prosciugare i danari della famiglia senza neanche dar loro la speranza di una discendenza: a lui sembravano non interessare le schiere di gnocche incredibili che gli si prostravano innanzi; ma gli ormai anziani genitori pazientavano, sperando che l’amore improvviso o la voglia di sesso gli facessero fare un passo falso, ingabbiandolo nella paternità.
Successe un giorno che IIIH si aggirava a piedi lungo il corso del fiume “da Niubbo” [fiume del middle est lungo il quale si riunivano i rompipalle dei forum e se gli chiedevi qualcosa ti rispondevano con un emoticon] in cerca di avventura, quando vide improvvisamente alla sua sinistra ergersi una montagna di incommensurabile portata; conscio che la geografia era un grosso problema a quel tempo decise di arrampicarsi lungo le pendici taglienti, piene di meretrici giganti e piranha terrestri; per fortuna portava con se il suo spadino per aprire le lettere delle spasimanti. Camminava da ore ed il sole iniziò a sorgere; IIIH non sapeva che fare, si era completamente dimenticato di questo avvenimento, aveva percorso come stregato i sentieri in salita e adesso il colossale astro stava per splendere in cielo; iniziò a sudare e piangere e sanguinare dai pori, poi si ricordò che non era un vampiro e quindi poteva continuare tranquillamente. Il sole era già alto quando sul sentiero che stava tracciando lui per la prima volta trovò una biforcazione con un cartello che indicava le specialità del luogo: andare a destra verso le rocce insanguinate e i piccioni in umido o a sinistra nel pendio della disperazione e degli alberi di ginepro mangiauomini? Ardua scelta; optò per la sinistra, non aveva mai digerito il piccione. Aveva fatto che qualche centinaio di chilometri che si trovò di fronte qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di trovare li: un ginepro mangiauomini! Si da il caso che secondo un’antica leggenda del suo paese in questa specie arborea, dentro al troncanale digestivo si trovava lo stuzzicadenti della distruzione di massa dolorosissima; notò quindi che involontariamente si era imbattuto non solo nella pianta, ma anche nelle funzioni proppiane: era nella prova qualificante! Decise di affrontare subito la pianta ed estrasse lo spadino, che non c’era più perché era caduto pochi centimetri dietro di lui, ma proprio nella zona d’ombra del suo sguardo fallace. Dopo averlo cercato per un paio d’ore si girò verso la pianta con gli occhi lucidi e notò che si era suicidata per la noia impiccandosi a un ramo. Potè prendere possesso così della stupefacente arma. Continuò il suo cammino verso la vetta per giorni e anni ancora quando finalmente giunse, in una notte di tempesta, sulla cima innevata. Il vento soffiava forte, il sole era calato, di fredde foglie morte… [era una canzone delle medie scritta da un mio amico, ma l’ho dimenticata]; insomma, pur non sapendo ancora che ci era venuto a fare così in alto e in mezzo a tutto quel ghiaccio un vago senso di soddisfazione lo pervase, nella vita aveva finalmente portato qualcosa fino in fondo. Ma lassù una nuova sfida lo attendeva: la prova decisiva! Un transessuale di
Nel frattempo Alos [!EVVIVA!], che continuava risoluta a guardare verso il mare, notò scendere da una montagna di recente formazione un giovane piacente che sembrava prossimo a dover mettere in atto la prova glorificante, così lo chiamò:
- HoOiIIIH!!! -
Il giovane si senti chiamato in causa e le rispose, pur non parlando ancora molto bene [nonostante si fosse fatto fare una protesi dal mastro ferraio del monte]:
- HALOOos - e le si avvicinò.
Incoscienti entrambi di essersi chiamati per nome si trovarono di fronte o comunque a pochi piani di distanza, e fu subito chiaro che qualcosa di meraviglioso stava per nascere. IIIH tirò fuori il fiore. Alos impallidì, ebbe un conato che cercò di trattenere, ma ci riuscì solo in parte, svenne, venne rianimata ma svenne di nuovo e entrò in coma, poi ritornò alla vita ma seppe che il suo canarino disfasico era morto e così si mise a piangere, poi si ricordò del giovane col fiore e si affacciò di nuovo alla finestra, strepitando come una che non vede l’ora:
- Il settimo fiore, oh splendore! Tu giovane straniero che hai varcato le soglie del mio cuore dopo aver affrontato indicibile prove e traversie innumerevoli con estremo dolore, dimmi, hai portato a me quel magnifico dono? -
- A tu… No! – rispose IIIH, che chiamò il suo cavallo e glielo diede da mangiare; poi si allontanò palpando i posteriori dell’equino.
Alos era sbiancata, non riusciva neanche a piangere, ne tantomeno a ridere, così iniziò a fare la maionese, che ben si addiceva al suo stato catatonico, e anche perché le serviva qualcosa di ipercalorico, visto che uno strano vento freddo iniziava a spirare da nord…
IIIH aveva inconsapevolmente pronunciato le parole magiche che avevano dato il via alla rotazione delle stagioni, partendo proprio da quella in cui i fiori perdono vita e si accasciano a terra esanimi; e così avvenne per i sei nelle mani delle donne la cui tinta per capelli aveva iniziato improvvisamente a perdere colore. A nulla servirono le amorevoli cure dei giardinieri e dei parrucchieri [neanche invertendosi i ruoli], per 3 lunghi mesi e ancora per i 3 successivi [questa però è un'altra storia] la decadenza regnò in quel reame non così lontano. Per dare un nome che riecheggiasse in eterno a questi 90 giorni circa vennero scelte proprio le incaute parole che il giovane IIIH aveva pronunciato rivolto alla bella Alos, spezzandole il cuore e, conseguentemente, facendola ingrassare a bestia; in compenso IIIH si è felicemente sposato con il suo destriero e adesso sono in dolce attesa di un puledro muschiato.
E ricordatevi sempre che i peccati dei padri ricadranno sui figli [vedi la famiglia skywalker] e che alla fine è sempre meglio una scatola di cioccolatini o un barattolo di maionese.
venerdì 28 dicembre 2007
domenica 16 dicembre 2007
venerdì 26 ottobre 2007
LOOOP
[ racconto in 13 / squarci e alcune variazioni appena sussurrate ]
Sono trafugati i baci che si danno e ricevono quando uno dei tuoi piedi è già pronto per partire preferibilmente con il resto del corpo attaccato: senti appena le labbra sfiorarti e vorresti essere stato più convincente, anche se il pensiero che non manca molto [nei confronti dell’eternità ma forse anche di un giorno] a rivedervi illude di poterti permettere questi lussi di carenza emotiva; è quindi con un piccolo cruccio privato che prendi posto nel punto più basso che ti è concesso occupare, e con aria di risoluta noncuranza ti assetti nella breve attesa che il motore del n°1 alzi i giri e ti porti lontano dalla frastornante fibrillante frustrazione del sabato sera, della necessità mortale di rendere questo giorno di letizia anche di molte altre persone [non ti compiaci più con te stesso come un tempo per i banali giochi di parole, forse che avere uno spirito pronto non sia più una priorità rispetto ad avere uno spirito e basta].
Osservi, come mamma semiotica adora vederti fare, con l’occhio di falco erudito e critico, pronto a calare per sbranare senza pietà le vite degli sconosciuti che condividono con te questi
Un tram del sabato sera è composto da un assortimento non ricco ne particolarmente variegato, e tu fai parte di questa elite annoiata in cui cerchi di crearti un ruolo che a nessuno fregherà di svelare, un contegno senza spocchia per confonderti e sparire, mischiare il tuo [quasi] vivo organismo con la plastica dei seggiolini per ottenere un ibrido di [quasi] immobile natura; ma se il “TU” di cui parliamo non fossi io saresti un anziana signora silenziosa accanto al suo leggermente più giovane consorte impegnato in vacui discorsi con una ragazza di circa 14 anni, saresti una donna turbata con un gilet rosso, una ragazzetta di 13 anni con il suo chewing-gum, un ennesima femmina dai tratti orientaleggianti al cellulare.
Sono queste le persone che neanche adesso sanno che esisti, e se lo sanno è solo per aver considerato di avere altri umani intorno; mi sembra incredibile come a nessuno mai venga voglia di svelare un intimo segreto custodito dal seggiolino al tuo fianco, come nel non conoscere noi stessi alla fine si perde la voglia di conoscere anche gli altri, sicuramente simili in noi per la spossante banalità che tutto cinge e divora nella sua routinaria crudeltà: perché è di questo che si parla, di “routine”, LOOP nel gergo di chi è abituato a veder ritornare fraseggi, pause, concetti rumorosi che ripetono se stessi ammettendo solo impostati e delimitati mutamenti.
L’anziana potrebbe non esistere sotto i suoi occhi seri: dalla tua posizione non puoi che scorgere dei capelli troppo neri e voluminosi e uno sguardo che respinge ogni oggetto come sgradito alla vista; sono gli occhi duri di chi non ha più niente di interessante da vedere, resi muti da una grigia patina di disinteresse, lontani dal potersi posare con rilassata quiete su di un oggetto desiderato, sopra un immagine che rinfranchi il cuore e distenda il volto rilassato nella sua perenne contrazione; è questo squarcio di volto a darle la cadenza con la quale si dimena immobile dal suo posto a sedere, è con questa perenne condizione di vuoto che la testa si gira a sinistra, torna centrale, si protende in avanti per poi inclinarsi a destra e ritornare diritta indietro assecondata dagli scossoni della vettura.
Il potenziale marito di questa è un uomo ben più completo, visto che è possibile scorgerne quasi la figura intera, ad eccezione di un piccolo lembo della sua parte destra, coperta dal seggiolino dietro di te; indossa vestiti di poco gusto con colori un tempo saturi ma ormai sbiaditi che sintetizzano egregiamente il volto di quest’ultimo: un sorriso sincero ma ormai stampato, legato da alcune rughe a occhi a mezz’asta, stanchi di dover reggere ogni momento questa sembianza un po’ grottesca di benessere ideale; ma c’è di più: nel suo pretendersi avanti e poi a destra verso la sua interlocutrice, poi sorridere un po’ più forte, tornare indietro e annuire finendo col chinare la testa per lo sforzo, nell’afferrarsi le mani e ripetere daccapo i gesti c’è l’ammissione al pubblico dei non osservanti [te escluso, come ti senti importante!] che sulla sua prolissa beniamina vorrebbe stamparcisi, abbandonando il tram con dentro la compagna tardona e fare follie anche solo per un secondo con questa giovane partner che così ingenuamente ma forse non così ingenua segue il gioco dello sguardo indagatore, lo sguardo che attende paziente il segnale di cedimento e timida ammissione di un interesse ricambiato.
Al contrario la ragazza che gli sta quasi di fronte ed esiste solo con la cuffia di un I-Pod incastrata nel suo profilo sinistro [che è tutt’altro che sinistro] è più che mai lontana dal poter concepire una qualsivoglia perversione con il pover’uomo probabilmente amico del padre in carriera o della giovane madre casalinga; lei è talmente rapita dalla propria voce da non potersi permettere una sosta a riflettere sulle parole proferite, sui concetti generali che mischiano così sapientemente cucina, benessere personale e questioni di politica “sociale”; si destreggia tra gli argomenti, ostenta conoscenze banali sapendo miscelare con cura umiltà e superbia, condendo il tutto con una gestualità scattante tipica del fermento cerebrale in atto, azionando le articolazioni rotatorie del polso destro per accompagnare i discorsi mentre la mano sinistra si alza e si abbassa stringendo a morte un ammasso di chip straziati dalla loro multifunzionalità estremamente sfruttata [il cellulare]; la testa seguita dal busto si dondola in maniera garbata avanti e indietro alternando passaggi fluidi a scatti composti, marionetta elettronica con collegamenti imperfetti.
La donna turbata di rosso guarda fuori dal finestrino, e se il vetro non avesse proprietà riflettenti potremmo dire che la sua faccia è orribilmente sfigurata, ma a quanto pare i motivi della sua preoccupazione risiedono fuori, da qualche parte tra le luci della città che si mischiano lente a quelle del grande cimitero comunale, città di morti certi che sfidano i vivi a dimostrare di non somigliarli; l’inquietudine si manifesta nelle mani, scorre attraverso le dita intrecciate che vanno sciogliendosi per permettere a una mano di afferrare l’altra, stringendo per poi tornare lentamente nella posizione iniziale e ripetersi fino a quando non ci sarà un motivo valido per non torcersi in agonia; chi è il tuo aguzzino? Chi gioca con le tue percezioni emotive? Chi merita tutta questa tensione? Ti auguro di risolverti, anche se non sarò io ad aiutarti se non dicendo che al mondo c’è un'altra persona triste che aspetta.
Due uomini tendenti al vicino oriente salgono e si frappongono alla prossima vittima, entrando a far parte di un gioco di cui non sanno le regole o di far parte; c’è un malcelato rapporto di sudditanza del primo, magro e chiuso fisicamente in se stesso, che osserva il secondo, rubicondo per non dire grasso, extracomunitario per non dire albanese, che muove la testa fiera a destra e sinistra accompagnando con gli occhi il movimento, aspettando che qualcuno li giudichi o li arresti, non saprei dire; non hanno timbrato biglietti e in 3 fermate sono arrivati, scendono silenziosi e non aggraziati, senza cambiare espressione: mesta rassegnazione e orgogliosa pacioccosità di chi mangia dal piatto dei suoi involontari ospiti [inteso come coloro che ospitano, maledetti termini a doppio significato]; sono scesi, riparte il gioco senza che i 2 vi abbiano apportato interessanti variazioni.
Masticare: c’è un loop più intrigante e coinvolgente che rigirarsi un pezzo di gomma commestibile tra i denti e la lingua? Finché c’è sapore di menta nulla è più importante di questo accessorio per l’alito, e quando si spegne ogni sapore rimane uno splendido TIC nervoso di massa; lei mastica il chewing gum come una ragazza di 13 anni che non ha ancora avuto la briga di imparare il significato pratico della parola “sexy”, ed è molto meglio così: il suo agitare le mandibole è semplice ma impegnato in qualcosa che fonde i pensieri con un moto biascicatorio piuttosto appariscente; gli occhi sono persi in giro, sfiorano angoli e superfici superficiali, senza lasciare nulla impresso sulla retina che non possa subito rimescolarsi con un oggetto di pari [nullo] valore; spero sia davvero così spensierata, quando avrà voglia di sapere come corrompersi tutto il pianeta che la circonda sarà pronto a darle una mano.
Tristezza portami via. È l’ultima anima che più mi impietosisce dall’inizio di questo breve iter di consapevolezza falsata aggiuntiva; ginoide [versione femminile dell’androide, non so se esiste un termine tecnico migliore] fabbricato nell’Est ma adattato all’Occidente si illude di aver stabilito una connessione con un suo simile tenendo attivo un apparecchio malefico che le devono aver trapiantato in un orecchio; si getta con tutto il corpo abbandonandosi su un sedile, poi riprende posizioni composte inarcando leggermente le spalle e girandosi verso il finestrino per schermarsi dall’indiscrezione che le sue frasi possono suscitare in noi compagni viaggiatori. Pena gioia frustrazione sorrisi e bronci passano standardizzati sul suo volto, alternati da funzioni semi randomizzate, in cui potremmo trovare una logica, un filo conduttore che ci porti a capire che non c’è niente all’infuori di questo continuo vano tentativo di comunicazione, che la vita può essere rincorrersi attraverso frequenze che passano dallo spazio per arrivare spesso a pochi metri da noi; ma per questi non c’è requie né pietà, non parole compassionevoli che vi accompagnino nell’era del corpo digitale perfetto; assemblatevi e Addio!
Sono arrivato, devo scendere e vorrei poter salutare tutti coloro che mi hanno intrattenuto mostrandomi come piccoli loop siano iscritti in melodie più grandi, da me inafferrabili ma solo percepibili attraverso le piccole ripetizioni che formano poi il tutto che è Vita, o totale mancanza di questa. Vorrei dimostrare che sono stati importanti, che una piccola ma non troppo parte della mia esistenza è dedicata a sconosciuti disinteressati forse anche da se stessi, senza domande da porre o risposte da dare a chi cerca in loro significati da aggiungere alla propria continuità, che altro non è che la ripetizione di un processo millenario inscritto nel loop del moto terrestre e della sua evoluzione, a sua volta piccola parte di una sinfonia universale magistralmente diretta da orchestre siderali in perenne, metodica, infinitesimale variazione.
Ma non erano 13 gli squarci? [dormi…]